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Una società di senzatetto | Sapri insegna

Il senzatetto, lo dice già la parola, per lo meno nell’immaginario d’un uomo comune, è colui che non ha casa, si scopre esser senza, si vive nell’assenza. Non gli resta che la strada. Con tutti i suoi fantasmi – come li chiama un caro amico – le sue ombre, i suoi mostri, i suoi luoghi comuni – quelli della brava gente – e, a volerle vedere, con le sue ricchezze, i suoi amori, la sua conoscenza.
Tralasciando il contesto di strada quale scelta di quell’uno che l’anela una vita all’aperto, c’è quell’altro che vi si ritrova, suo malgrado, inaspettatamente (anche se con il preavviso), seduto su una panchina, tutti gli averi in un’unica borsa, in quel di Sapri – la stazione, in quel d’un parco lì di fronte, a sondare il gran perché d’una tale assenza.
Una vita senza.
Senza casa.
Senza le tue cose, tutte quante, non soltanto uno spicchio, una porzione, una minima parte.
Senza il calore d’un mondo vivo, placido e accogliente.
Senza l’intimità condivisa con quell’Altro, tuo eguale, in un’altra forma.
Senza il conforto d’un sentire assai profondo d’esser davvero a casa, perché è la tua inesorabilmente.
Senza l’affanno che ti rode dentro di volervi far ritorno, quando già l’ora giunge, perché in realtà non l’hai mai lasciata, tanto meno persa, la tua casa.
Senza l’incubo d’esser cacciato, buttato fuori, allontanato, perché quello è il tuo posto, e non certo per la sola ragione d’avere il nome stampato su uno straccio di carta.
Senza l’ansia e la smania di voler scappare, andare via, ovunque sia, perché qui non hai niente, non c’è niente, quando invece è reale il contrario, ma non vedi, vivi l’ombra.
Vien spontaneo glissare sulle cause d’un tal misfatto, soltanto care ad una mente che s’illude d’esser al governo di eventi che la vita scrive. Non vi è ragione per il cuore di trastullarsi il fatto, trae forza dal piacere di entrare nonostante dentro e vedere tutto ciò che nell’ombra ancora giace.
Vuoi per il vezzo d’un evidenza, è manifesto, assai palese e visibile anche all’occhio nudo, che colui che giace in strada è uno senza un tetto, inteso proprio. Ma che dire di quell’altro, suo fratello, sì presente pure a Sapri, ma sconosciuto a sé stesso, prima terra. Seppur al riparo tra le mura, quelle quattro cosiddette, a poggiar le membra su di un giaciglio più confortevole d’un cartone sul lastricato nelle notti umide di queste parti, non da l’idea a guardarlo, a osservarlo, a viverlo, d’esser lui uno che si sente a casa propria per davvero. E forse, in realtà, non lo è, è anche lui fuori, uno dei tanti a rafforzare l’esercito già dei senzatetto, o meglio ancora: a riflettere quella stessa, un’intera società di senzatetto.
Che ne è d’una casa, intesa propria, di quella coppia, marito e moglie, che già cacciati sono costretti a rifugiarsi, loro malgrado e separati, in quella casa che è dei genitori. Pur lavorando senza sosta, tutte le ore della giornata e forse anche della notte, la paga è tal miseria che copre appena qualche spesa. Non sono loro pure senza tetto, in realtà?
Che ne è d’una casa, intesa propria, di quella giovane già adulta e impiegata in quel d’un Amministrazione detta pubblica, che mai andata è costretta a sostare in quella d’una madre, tra le sue di cose. Pur lavorando tutti i giorni delle settimane a comporre l’anno, la paga è tal miseria (quando almeno corrisposta!) che copre appena qualche vezzo. Non è lei pure senza tetto, in realtà?
Che ne è d’una casa, intesa propria, di quei due, pur commercianti (non certo i soli), che a star seduti tutto il giorno, a porte aperte e sorriso acceso, in negozio sorte infausta, son costretti a vivere l’incubo d’una pigione, l’arretrato onnipotente, grazie pure a quei clienti mai disposti a saldare i conti, un’abitudine da queste parti. Non sono loro pure senza tetto, in realtà?
Che ne è d’una casa, intesa propria, di quei tanti che pur vantandole, quelle quattro mura, son costretti, unico lido, a vagare per i corridoi d’una stazione, a volte pur deserta, in cerca d’un sorriso, d’una chiacchiera o solo d’un conforto. Non sono loro pure senza tetto, in realtà?
E ancora, che ne è d’una casa, intesa propria, di quell’uomo, mezza età, sempre affacciato alla finestra d’un albergo Guest House Stazione - almeno un tetto par ce l’abbia -, che è costretto a mangiare solo, il panino, all’ingresso, accompagnato da un po’ di vino adagiato sul tappetino della macchina - si presume sua - parcheggiata lì davanti. Non è lui pure senza tetto, in realtà?
E che ne è, pur sempre ancora, d’una casa, intesa propria, di quella donna, cinquant’anni, incapace di stare al mondo senza il conforto di una canna, che è costretta a occupare una stanza sì congelata in quella di mammina… d’una sua che se ne fa?
Non c’è nessuno ad aspettarla.
Non c’è nessuno a confortarla.
Non c’è nessuno, è troppo vuota.
Non è lei pure senza tetto, in realtà?
Mentre l’elenco si fa già lungo, ben lontano dall’esaurirsi, noi sediamo sulla panchina in quel di Sapri sì ridente, con la voglia d’interrogarci, se davvero c’è differenza tra noi che siamo fuori, in strada ora e senza un tetto, e quelli dentro, le quattro mura, ma pure senza quello stesso tetto, inteso proprio. I fantasmi son gli stessi, anche l’ombra non è diversa, tutto il resto è pure uguale… forse cambia solo il fatto, che in quanto a ordine e pulizia, noi barboni siamo benedetti, a vederle certe case di quelli dentro e con il tetto, se non proprio almeno altrui.
#senzatetto #senzatettosapri #sapri #fantasmi #ombra #società
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