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Un viaggio nell’accogliente Marocco

Questo articolo è una introduzione ad un reportage fotografico in Marocco

Dopo tanto viaggiare in Europa, in generale nell’Occidente ricco, volevo, quell’anno, all’inizio del nuovo millennio, fare qualcosa di diverso dalle offerte tre per due, così decisi di visitare un paese africano.

Vi sarei tornata molto spesso in Africa tanto le sue intense luci e le sue genti mi hanno affascinato e coinvolto.

Un poco preoccupata per i discorsi che giravano da noi a riguardo di possibili sciagure e pericoli svariati (essere scambiata per cammelli, essere rapita e finire in un bordello, dover cambiare il colore dei miei capelli, un bel biondo oro, allora…. ora bigi, dover comunque sopportare e rischiare ogni tipo di insulti) cominciai a chiedermi quale fosse la realtà e decisi di iniziare con un libro.

In modo abbastanza casuale trovai nella libreria che frequento “Creatura di sabbia” di Tahar Ben Jelloun. Il titolo mi intrigava, l’autore lo conoscevo.

Iniziai così una lettura che mi ha portato lontano.

Il romanzo, ambientato in Marocco, è la storia di un'identità inventata, femmina ma maschio per il volere del padre, in una metamorfosi colma di turbamenti, ossessioni, violenze e paradossi; una creatura di sabbia, una donna negata, una sessualità stravolta, una identità violata.

Il racconto ti illumina sulle tradizioni e i tabù, sulla Jellaba, che copre ma non nasconde, completamente .

Ho cominciato così e se, all’inizio, il viaggio in Marocco è stato inevitabile per la fascinazione della cultura maghrebina, il profumo prepotente del cumino, i colori intensi che ti scuotono i sensi assieme all’incredulità e l’indignazione per la realtà svelata nel racconto, ho poi tentato un’altra via di conoscenza: un esperimento difficile ma per me chiaro, ho provato a liberarmi dal fascino dell’esotico che agli occidentali piace tanto e ad avvicinarmi in modo critico a quel mondo, ho cercato di disfarmi del mio pregiudizio, a non versarmi alla facile condanna di una società marocchina patriarcale e maschilista, ho pensato come a cambiare la mia provenienza, essere io al Sud di un Nord, essere io a Sud del Marocco.

Con questi occhi ho visto tanto.

Ho trovato, nella prima parte del viaggio, a Tangeri, Essauira, Casablanca, quello che il racconto mi aveva suggerito, un misto tra tradizione occidentale ed araba, tra cultura orale e scritta, maschio e femmina, vita e morte, spirito e carne, e la Jellaba che nasconde ma non copre completamente.

Poi le città imperiali: Fes, Rabat, Meknes, stracolme di turisti, interessanti per le costruzioni e le architetture, ma poco per la gente che mi è parsa tutta tesa a proporre turismo e molto poco autentica.

Mi sono spostata poi a Marrakech, dove, sarà per i miei ricordi sessantottini, per il significato che per me giovane ha avuto, sono stata benissimo, incantata dagli incantatori della piazza.

Al tramonto la Djemaa el Fna si accende di mille luci e banchetti dove si può mangiare benissimo e trovare di tutto, dalla couscouschiera alla dentiera da viaggio, dagli incantatori di serpenti ai venditori di acqua fresca; forse tutto poco autentico, non so, ma mi è piaciuto molto e ci tornerò.

Mi sono poi diretta verso il deserto e, sulla duna di Merzouga, ho fatto conoscenza con una natura che ancora non avevo vissuto, il deserto appunto, che sarà meta di altri miei viaggi in Africa, ragione di scoperta interiore di silenzi e di grida. La notte, le stelle, la magia del silenzio.

I datteri.

Sui monti dell’Atlante ho barattato per un tappetino, bevuto il tè, servito da una donna nascosta agli occhi altrui.

Ritornata in città sono stata ospite di un amico marocchino, conosciuto in Toscana perché venditore ambulante, lì ho visto rituali e situazioni: le donne, quelle poche ammesse alla conversazione, non possono parlare direttamente agli uomini, le loro parole vengono ritrasmesse dal padre, marito, fratello.

Ho anche avuto lezioni di gentilezza e di accoglienza che le genti del Nord del Sud si sono dimenticate o, forse, non hanno mai vissuto.

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