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Ucraina, Russia e una data storica dal doppio significato

La data del 24 febbraio è destinata a rimanere, per una ragione o per l’altra, ben evidenziata nei libri di storia del prossimo futuro. Dicendo “per una ragione o per l’altra” si vuole appunto sottolineare che i motivi per cui essa potrebbe diventare una data storica sembrerebbero ormai essere due e di segno diametralmente opposto.

Il primo motivo è quello palese di contrassegnare la data della possibile scomparsa dell'Ucraina come l'abbiamo conosciuta dal giorno della sua (ultima) dichiarazione di indipendenza nel 1991.

Tale pareva nell’immediatezza dell’invasione russa ai danni di un paese sovrano, faticosamente avviato verso la forma di una democrazia compiuta, da almeno vent’anni intento a un periglioso e tortuoso cammino di avvicinamento al mondo occidentale.

La storia, in quel momento, sembrava aver preso la strada del ritorno a vele spiegate – o per meglio dire a carri armati (di)spiegati – della potenza imperiale russa.

Quel giorno, Putin si decise per l’azione militare con totale disprezzo del diritto internazionale e delle regole della convivenza civile fra stati sovrani europei (similmente, ma con diverse motivazioni, ben altro dispiegamento di mezzi e ben altre conseguenze, da quanto fatto dalla Nato contro la Serbia nel 1999).

Nonostante – lo ha evidenziato l’agenzia Reuters in questi giorni – che il suo stesso delegato per l’Ucraina, Dmitry Kozak, avesse consigliato di soprassedere sull’azione militare avendo trovato un accordo con gli ucraini sulle più pressanti richieste russe. In particolare sulla rinuncia all’idea di aderire alla Nato (della quale l'Ucraina non ha mai fatto parte dato che la sua domanda è stata congelata nel 2008 per l'opposizione di alcuni paesi europei fra cui l'Italia).

Poi si sa com’è andata a finire: Putin ha deciso per l’azione, con buona pace di tutti quelli che accusavano Zelensky e l'Occidente di non voler cercare una mediazione con la Russia invece della guerra. Non c'era alcuno spazio per una trattativa in realtà. E di Kozak, che l'aveva proposta, non si sa più niente da giugno

Quel giorno, e ancor di più nei giorni seguenti, quando la colonna di tank penetrati dalla complice Bielorussia puntava diretta sulla capitale – a proposito, c'è da chiedersi se a Kiev non abbiano già pronti i piani per vendicarsi a tempo debito con il paese confinante – l’idea che l’Ucraina fosse spacciata fu pressoché unanime. Perfino gli alleati americani consigliarono al presidente Zelensky di fare velocemente le valigie e di imbarcarsi sull’aereo che gli avevano messo a disposizione. La sua risposta, vera o presunta, “ho bisogno di armi, non di un taxi” è destinata a diventare emblematica della resistenza ucraina. Resistenza dell’esercito che si calcolava in giorni. Al più in un paio di settimane. Poi la Russia avrebbe travolto tutto e tutti per procedere infine alla “normalizzazione” del paese, decapitandone le istituzioni e sostituendone la classe dirigente ad ogni livello. Ne abbiamo viste a Bucha e in altre località occupate le reali e brutali modalità attuative.

In Italia gli esperti apparsi in televisione o sui media – più o meno credibili, più o meno intelligenti o più o meno simpatizzanti o conniventi con le ragioni accampate dal Cremlino – non persero tempo a consigliare caldamente al governo ucraino di arrendersi e consegnare il paese a Putin e al suo “stato mafioso postcomunista”, secondo la definizione del politico ungherese Bálint Magyar, perfettamente adattabile al regime di Mosca.

C’era più di un motivo per pensare che arrendersi sarebbe stata l’opzione migliore, senz’altro la meno cruenta. Senza scivolare nel classico “reductio ad hitlerum”, potremmo anche convenire che se il mondo si fosse arreso alle armate naziste senza opporsi, si sarebbero risparmiate enormi distruzioni e sessanta milioni di morti. Ma qualcuno se la sente di sostenerlo davvero oggi? Sarebbe stata davvero un'opzione percorribile?

E comunque, è chiaro che agli ucraini l'idea di arrendersi non piacesse. E che non l’abbiano accettata, per qualche loro ben fondata ragione, è provato dalla compattezza della risposta data agli invasori da governo, istituzioni, esercito e popolazione, praticamente senza defezioni apprezzabili. Altra cosa che Mosca non aveva previsto. Putin credeva davvero che l’esercito ucraino si sarebbe rivoltato contro il suo stesso governo, che la popolazione avrebbe accolto come liberatori i suoi tank, che il governo dell’odiato Zelensky si sarebbe squagliato nel'arco di un mattino. Chissà che cosa gli avevano raccontato i suoi per fargli prendere una cantonata storica del genere. Di sicuro Zelensky ha ben rappresentato, fra le mille difficoltà immaginabili, la compattezza di una nazione in armi. Spiace per i tanti fessacchiotti che l'hanno deriso per la sua insistenza "bellicista". Come se in una situazione del genere avesse potuto fare altro che chiedere pervicacemente sostegno militare per la sua nazione aggredita.

Fatto sta che i soldati russi si sono dovuti ritirare in fretta e furia dalla parte settentrionale del paese invaso, per dedicarsi con più convinzione e con il sostegno dei loro simpatizzanti locali, al Donbass. Un successo iniziale indiscutibile (della seconda fase) e un quinto circa dell’Ucraina, compreso quello che controllavano già dal 2014, è caduto nelle loro mani. Poi, progressivamente, si sono impantanati anche nel sud e nell’est del paese. I loro progressi, lenti, pesanti, con grande uso dell’artiglieria, si contavano in qualche chilometro al giorno, poi in qualche centinaio di metri, poi in quasi niente. Infine in niente più.

Fino alla clamorosa controffensiva ucraina non ancora terminata, la terza fase del conflitto, che in pochi giorni si è ripresa buona parte del territorio così faticosamente conquistato dai russi in mesi. Grande intelligenza tattica, ottima pianificazione strategica, grande uso dell’intelligence, fondamentale supporto delle armi occidentali (quelle armi che i "pacifisti" volevano negare per lasciare che Putin facesse quello che voleva senza troppi fastidi).

Sorprendente il successo della controffensiva anche per gli analisti militari, figuriamoci per il grande pubblico che continuava a pensare a una presunta imbattibilità dell’Armata russa. Un mito inossidabile nel tempo, ma destinato a fare i conti con una realtà ben diversa.

E qui viene fuori la seconda motivazione per cui il 24 febbraio potrebbe diventare una data davvero storica. «Prepare for Russia itself to disintegrate. Prepararsi alla disintegrazione della Russia stessa».

Ne parla un analista, l’ex comandante delle forze armate americane in Europa Ben Hodges, sul Telegraph. Uno che, dicono, ne ha sbagliate poche di previsioni in vita sua.

Il succo del suo articolo rovescia totalmente quanto si andava dicendo sei mesi fa: non è l’Ucraina che sta per scomparire come stato sovrano, ma la Federazione russa per come la conosciamo:«Credo che ci sia una reale possibilità che le debolezze esposte di Vladimir Putin siano così gravi, che potremmo assistere all'inizio della fine non solo del suo regime, ma della stessa Federazione Russa».

Il suo ragionamento si articola su tre punti chiave: il crollo della fiducia interna nell'esercito russo, poi i danni subiti dall'economia russa che «sono stati troppo devastanti per sostenere una popolazione di 144 milioni di abitanti» (ma in Italia c'è un ampio fronte di travaglisti convinti che la Russia delle sanzioni "se ne ride"). E infine la scarsa demografia e l’estrema parcellizzazione della popolazione su un territorio così vasto. Elementi che «rendono difficile il raggiungimento della solidarietà civica anche nei tempi migliori». Figuriamoci ora.

Aggiungerei lo stato di tensione crescente fra i paesi della ex Unione Sovietica (la guerra aperta tra Armenia e Azerbaigian, quella sempre sul punto di esplodere di nuovo tra Tagikistan e Kirghizistan, la questione georgiana e quella, ancora più lacerante, della Cecenia) che si va a sommare ai malumori crescenti nelle popolazioni che subiscono più vittime dalla guerra in Ucraina: daghestani, buriati e altre minoranze povere, caucasiche o asiatiche, che vanno a morire per la guerra voluta dai russi. O ai malumori degli oligarchi, poco abituati a vedersi penalizzare economicamente da scelte geopolitiche scellerate. O, ancora, alla crescente freddezza cinese.

Il problema posto dall’ex generale americano non è tanto se la Federazione russa collasserà – lui ne è ragionevolmente certo – quanto sulla necessità che l’Occidente capisca che questa possibilità è reale, tanto quanto fu reale il collasso dell’URSS su cui non si è riflettuto a sufficienza: «La nostra incapacità di arrivare preparati all'ultimo crollo russo circa trent’anni fa, e i disordini interni che ne sono seguiti, hanno probabilmente portato il paese alla presidenza di Putin. Non possiamo rischiare di essere impreparati la seconda volta». Che potrebbe essere anche peggio.

Forse un po' azzardata la previsione di un catastrofico crollo di regime e di istituzioni russe – dopotutto la guerra in Ucraina potrebbe presentare ancora qualche capovolgimento di fronte (anche se Hodges in un tweet - poi ripreso dalla stampa  - si è detto certo che il Donbass sarà ripreso da Kiev entro la fine dell'anno e la Crimea entro l'anno prossimo) e rivelarsi meno devastante per Putin di quanto non appaia oggi sull'onda dell'entusiasmo occidentale per la controffensiva ucraina vincente.

E tuttavia qualche riflessione su questa possibilità è bene che a Washington, e soprattutto a Bruxelles, qualcuno cominci a farsela. La Russia confina e confinerà sempre più ampiamente, se l'Ucraina aderirà anch'essa, con l'Unione europea. È quindi necessario ricordarsi che con la Russia si dovranno fare i conti, amichevoli o meno, qualsiasi sia la fine di questo travagliato periodo.

Insieme alla riflessione, in parallelo, di come preservare gli equilibri interni dell'Unione se si apriranno le porte a un'Ucraina comprensibilmente in piena esaltazione patriottico-nazionalistica e sicuramente molto, molto filoamericana. Il baricentro si sposterà molto a est e non è detto che sia facile mantenere l'equilibrio intercomunitario.

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