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URI CAINE, “CALIBRATED THICKNESS” (816 Music)

Il pianista di Philadelphia incide per la sua etichetta. Si sentirà più libero? In veste cartonata, come per gli altri esemplari, ancora pochi, esce “Calibrated Thickness”, ‘spessore calibrato’. Che cosa significa, se la traduzione è corretta? Che ogni brano ha uno spessore valutato con prudenza, adattato o adattabile alla sensibilità di ognuno – dei musicisti o degli ascoltatori ? E’ un bel disco, anche se al primo impatto non rimane impresso nella memoria. Necessitano più ascolti per entrare in confidenza, riflettere sulla struttura dei pezzi. Che sono tutti di Uri Caine. Mi ha subito colpito il titolo del primo, “Manahatta”. Innanzitutto mi sono chiesto : che cosa significa?. C’è un qualche riferimento a Manhattan, visto che Uri ormai vive a New York?. Ma allora perché Manahatta e non Manhattan? E’ una composizione tiratissima in cui si trova molto, se non tutto, il pianismo di Uri. Accenti, pedali insistiti, stimolazioni per gli altri strumenti, in questo caso la batteria, che fa riferimento ad una struttura di 16 misure per costruire una lunga improvvisazione. Clarence Penn è convincente. Scompone quanto basta, senza inutili eccessi. Appronta un set di piatti dalla timbrica oscura. C’è qualche chiodato, mi sembra che la scia lasciata dagli Splash sia molto breve. Invece, quella dei Ride e dei Crash continua, mentre il 4/4 velocissimo prosegue imperterrito. Sembra uno di quei modali molto percossi di McCoy Tyner, negli LP postcoltraniani a suo nome.

Dopo tanto tempo fa piacere riascoltare Mark Elias, contrabbassista solido ritmicamente e armonicamente, il quale si ritaglia assolo convincenti e necessari perché i musicisti stiano attenti a non lasciarsi trasportare troppo dalla vena improvvisativa. Il disco contiene 15 tracce per una durata totale di un’ora. Sembrano tante, se si pensa a brani lunghissimi che caratterizzano il Jazz. Qui invece durano dai due minuti o poco più ai quasi sette. Meglio così, perché si riesce ad avere un’idea più completa della personalità musicale del leader. In soli tre pezzi, è presente alla cornetta Kirk Knuffke, uno sconosciuto per chi scrive. L’ultimo dei tre, “Shadow of a doubt”, sembrerebbe adatto a commentare uno di quei thriller in bianco e nero del bel cinema di una volta.

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