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Tunisia: salvataggio o golpe?

La Tunisia sta attraversando un momento cruciale della sua vita. La pandemia sta compiendo una vera e propria strage. La povertà spinge migliaia di giovani a tentare la fuga tramite le micidiali rotte del mediterraneo centrale. Ci sono proteste e violenze per le strade. La repressione è tornata a far parte del gergo politico del paese e il Presidente della Repubblica ha appena sospeso il parlamento e mandato a casa l’intero governo. Quella di questi giorni è probabilmente la peggiore crisi dalla “Rivoluzione” del 2011 a oggi. Come si è arrivati a questo punto?

di Karim Metref

 

Il Presidente tunisinon Kaïs Saïed (Foto di Wikimedia Commons)

Dopo la primavera l’inverno

Nel 2011 la Tunisia iniziò la stagione chiamata delle “Primavere arabe”. Una stagione di proteste che infiammò non solo tutto il paese ma anche molte altre nazioni vicine e lontane. Ma quella Primavera Araba andò molto male per la maggior parte dei paesi. La Libia, Lo Yemen e La Siria sono stati praticamente rasi al suolo. Mentre altri paesi continuano a lottare senza mai vedere la fine del Tunnel.

L’unico paese che ne è uscito con un lieto fine è stata la Tunisia. Il dittatore Ben Ali è scappato e l’esercito che ha rifiutato di reprimere la gente inerme, ha accompagnato la società civile in un percorso di transizione democratica abbastanza riuscito. Ora in Tunisia ci sono istituzioni elette democraticamente e la libertà di espressione… Però oggi, esattamente 10 anni dopo quella avventura, il piccolo paese nordafricano è di nuovo in crisi politica e la sua economia è allo stremo

Rivoluzioni a Km0 e contro rivoluzioni d’importazione

Se in Tunisia non fu versato sangue né durante né dopo la “Rivoluzione” è in gran parte merito del popolo tunisino, che ha saputo manifestare in pace, È poi è merito di una società civile tunisina, che ha saputo inquadrare la protesta e poi sedersi introno a un tavolo e discutere e confrontare le alternative possibili e trovare accordi. Ma si può anche dire che una parte non indifferente di questo successo è dovuto al fatto che la Tunisia sia piccola e povera. Le potenze predatrici, quando la Tunisia effettuava il suo cambiamento politico, erano impegnate a contendersi due prede belle grasse: la ricca Libia e la strategica Siria.

Ma questo disinteresse dei predatori internazionali non era totale né definitivo. Senza invasioni, né guerre civili teleguidate, l’influenza straniera si è fatta sentire soprattutto tramite i petrodollari. In pochi mesi, dopo la caduta del regime di Benali, il partito islamista En-Nahda (tendenza fratelli musulmani), da decenni assente dalla scena politica locale a causa della forte repressione subita, diventa il primo partito politico nazionale. Con tanto di sedi, mezzi d’informazione e funzionari su tutto il territorio.

A mettere i mezzi economici (logistici e mediatici) di questa veloce espansione c’erano i soliti paesi del Golfo Persico, Qatar in testa. In cambio di questa generosità En-Nahda fece della Tunisia dei primi anni 2010 un vero eldorado per i movimenti gihadisti che cominciano a crescere come erba infestante. Presto la Libia e la Tunisia diventano vere e proprie piattaforme di reclutamento e partenza per la Siria. In quei tempi cominciò una stagione di violenza politica che portò il paese sulle prime pagine del mondo intero, con stragi di turisti e uccisioni mirate di militanti e intellettuali laici.

Ma ancora una volta la società civile tunisina dimostrò la sua maturità e seppe ricompattare intorno a un progetto laico e democratico e gli islamisti di En-Nahda furono costretti a fare un passo indietro e a comporre con le altre forze politiche.

Il fiasco dall’economia

La Tunisia di Benali otteneva le sue rendite da 3 fonti principali: turismo, agricoltura-pesca e industria leggera. Dopo la “Rivoluzione”, l’instabilità politica e la violenza hanno fatto scappare i turisti e la ritrovata libertà di espressione e di organizzazione (anche sindacale) ha fatto scappare le multinazionali. E il settore dell’agricoltura, in assenza di politiche di sviluppo, di valorizzazione e distribuzione di nuove terre e di aiuto ai piccoli produttori, rimane molto al di sotto delle capacità e dei bisogni reali del paese.

In questo disastro economico la crisi pandemica ha colpito la Tunisia in pieno. Come in altre parti del mondo, la diffusione del contagio e la moltiplicazione dei casi gravi ha scoperchiato un sistema sanitario che di sano non ha più nulla: ospedali allo stremo, ossigeno introvabile e soggetto a speculazioni commerciali, morti a centinaia con più di mezzo milioni di positivi (conosciuti), quasi il 5% della popolazione totale, il panico è ovunque e aggiunge paura alla rabbia e al malessere già molto diffusi.

Salvataggio o golpe..?

Su questo sottofondo di profondo malessere, la popolazione esce per le strade da mesi per chiedere lavoro, pane e dignità ma anche per denunciare l’inefficienza e la corruzione del governo. Dall’inizio dell’anno era iniziato un specie di braccio di ferro tra il presidente Kaïs Saïed (indipendente) e il partito di maggioranza al parlamento En-Nahda. Da una parte si denuncia la cattiva gestione del paese e la corruzione dilagante, dall’altra si parla di autoritarismo e di ritorno al presidenzialismo assoluto.

Domenica scorsa (25 luglio), Le strade del Centro della capitale Tunisi erano piene di manifestanti che chiedevano la partenza del governo. La sera, al termine di una riunione di crisi, il Presidente, invocando l’articolo 80 della Costituzione, annuncia il congelamento delle attività di governo e del parlamento (con soppressione dell’immunità per tutti i parlamentari) e l’allontanamento immediato dei ministri della Difesa Brahim Bartagi e della giustizia Hasna Ben Slimane. Inoltre, annuncia la formazione imminente di un governo di crisi che risponderà direttamente alla Presidenza della Repubblica, e il controllo diretto dell’istituzione presidenziale sul potere giudiziario.

Poco dopo l’annuncio, migliaia di tunisini sono usciti in strada per festeggiare. La maggioranza parlamentare, con in testa Al-Nahda, ha da parte sua indetto assembramenti per denunciare quello che chiamano un “Colpo di Stato”. Di fronte al parlamento, sostenitori del presidente e delle varie forze politiche presenti in parlamento si affrontano a colpi di accuse, insulti e lancio di oggetti vari.

L’esercito occupa le strade e cerca di evitare scontri violenti. Ma in molte zone del paese ci sono scene di saccheggi e incendi, principalmente ai danni delle sedi del partito Al-Nahda.

Un ritorno al dialogo è ancora possibile

Questa è senza dubbio la più grande crisi affrontata dal paese dalla fine della “Rivoluzione dei Gelsomini”. Ma la società civile tunisina che ha dimostrato grande maturità in passato, ha tutte le carte in mano per uscirne senza spargimento di sangue e per proseguire un percorso transizione verso uno Stato di diritto che rimane un faro da seguire per tutta la sponda Sud del Mediterraneo.

Forse prendendo atto questa volta che i diritti politici non hanno nessun valore per chi ha fame, per chi non ha futuro e per chi non può curarsi se è malato.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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