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Traiettorie sociologiche: Ma la dottrina Bush è davvero tramontata?

di Giovanni De Notaris

Ha da poco aperto un suo profilo sul social network “Facebook” con tanto di Inaugural Address, ha ricevuto da Barack Obama l’incarico, assieme al suo predecessore Bill Clinton, di occuparsi della gestione degli aiuti a Haiti, gira il mondo tenendo conferenze; insomma il vecchio W. o “Dubya”come lo chiamano laggiù nel profondo e arido Texas non sembra voler fare come gli altri presidenti suoi predecessori, che dopo il termine dei loro mandati sono praticamente scomparsi dalla scena mondiale tranne brevi apparizioni istituzionali. George W. Bush non può ancora essere considerato un personaggio di secondo piano nell’agenda geopolitica mondiale. Per alcuni è stato un flagello dell’umanità, per altri ha rappresentato un vero e proprio cambiamento necessario per ridefinire le nuove relazioni globali del XXI secolo dall’11 settembre 2001 in poi.

Di lui si sa praticamente tutto o così almeno pare. Molti lo ritengono uno stupidotto come Oliver Stone nel suo film documentario (Stone, 2009), ma in realtà non è proprio così. Bush ha determinato le scelte della sua Amministrazione sia in politica estera che in politica interna. Si è chiaramente fatto guidare o consigliare in alcune scelte da Condoleeza Rice, Donald Rumsfeld o Dick Cheney, ovviamente in bene o in male, ma d’altra parte quale presidente non lo ha fatto. Non si dovrebbe però dubitare della sua onestà quando diceva, e davvero ci credeva, dall’11 settembre in poi, di voler diffondere la democrazia in paesi corrotti come ad esempio quelli mediorientali.
 
Poi tutto è andato come è andato. Un tragico calo di consenso internazionale, le campagne d’Afghanistan prima, d’Iraq poi, che per quanto attiene la prima non si parla di un probabile ritiro se non prima della fine del 2011; il mai dimenticato disastro dell’uragano Katrina, che ha annientato la vita gioiosa e allo stesso tempo tragica di New Orleans, dove il presidente è stato accusato di aver sottovalutato il trauma che l’uragano poteva portare in quelle zone; per concludere con il tracollo del sistema economico americano, con gli scandali delle banche e la crisi del settore automobilistico. E fin qui la storia è ben nota.
 
Ma Obama, il primo presidente afroamericano della storia a stelle e strisce, ha davvero cambiato le carte in tavola? Ha davvero dato una sterzata alla politica estera americana? Oppure ha continuato nel solco tracciato dal suo predecessore?
È d’obbligo partire dall’ormai famosa guerra al terrore globale. Bush aveva i suoi motivi per farla e qui poco importano, ma Obama che aveva promesso un cambio di rotta in politica estera durante la campagna elettorale, ha davvero mantenuto la promessa?
 
Sorvolando sul contesto iracheno dove le truppe sono state ritirate da poco, nel contesto afghano invece parrebbe che egli sia più determinato del suo predecessore a restare e a portare avanti la missione di liberare il paese dai terroristi e dargli definitivamente una situazione politica stabile; cosa più che giusta. È lì che l’America fin dall’Amministrazione precedente si gioca tutta la sua credibilità internazionale, quindi è giusto che il giovane presidente porti avanti il processo di nation building cominciato da Bush.
 
Una piccola differenza però è che Obama, a differenza di Bush che con gli anni ha diminuito la sua presunzione unilateralista, tentando più volte un’intesa con gli alleati, non si è mostrato come al suo solito così tanto bonario e disponibile con gli altri partner della NATO che hanno le proprie truppe schierate sul posto. Egli ha presentato la sua strategia e ne ha messo al corrente i suoi alleati senza consultarsi prima con loro e cioè come sarebbe stato giusto proprio in virtù dei sacrifici anche in vite umane che le altre nazioni coinvolte stanno facendo. Tutto questo ricorda un po’ il primo Bush.
 
Ma il contesto internazionale non si ferma certo all’Afghanistan.
Quando in seguito al pericolo nucleare nordcoreano l’Amministrazione Bush non escluse un ennesimo intervento militare, la comunità internazionale sobbalzò nelle comode poltrone in pelle in cui si crogiola protestando fortemente perché qui si rischiava davvero una guerra nucleare. Ora, si può giustamente essere d’accordo con queste ben note preoccupazioni, ma il buon Obama come ha affrontato il problema coreano? Ha fatto anch’egli intendere che non si può escludere un possibile ricorso alle armi.
 
Adesso di nuovo in Medio Oriente, e più precisamente in Iran.
La patria dell’ayatollah Khomeini sembra davvero non voler smettere di turbare da Jimmy Carter in poi i sonni dei presidenti americani. La nazione islamica è da tempo in forte subbuglio interno; si dice difatti che il presidente Mahmud Ahmadinejad non abbia vinto le elezioni del 2009 regolarmente. Vi sono state nel paese delle diffuse proteste sedate nel sangue dalle forze dell’ordine, mentre la repubblica islamica potenziava, come ora ha fatto, il suo programma nucleare (a fini pacifici, dice). All’epoca W. fece capire tramite il suo segretario di Stato Rice che se l’Iran non avesse dismesso il suo programma nucleare anche qui non sarebbero stati esclusi interventi militari.
 
Di nuovo la comunità internazionale balzò dalle già citate – e ben rodate – comode poltrone protestando fortemente perché l’Iran era un superpotenza come la Nord Corea e davvero si rischiava una guerra nucleare; e di nuovo non si può che trovarsi d’accordo con queste valide preoccupazioni.
 
Ma il presidente di origine hawaiana che cosa ha fatto per affrontare il problema? Ha cercato come Bush la via della mediazione e in un primo momento sembrava avercela fatta, ma poi l’Iran dopo un rallentamento ha ripreso a pieno regime il suo programma nucleare spingendo l’Amministrazione Obama a non poter escludere effettivamente anche qui un intervento militare. A questo poi si va ad aggiungere la recente preoccupazione espressa dal segretario di Stato Hillary Clinton che l’Iran possa essere finanziatore del terrorismo; preoccupazione già espressa dalla precedente Amministrazione.
 
Ma l’altro fallimento importante di Bush è stato, come si accennava, l’uragano Katrina del 2005; una vera apocalisse di fango e sangue. Le critiche all’Amministrazione furono fortissime, si diceva che avesse sottovalutato le conseguenze di questa sciagura della natura e che non fosse intervenuta in tempo. Queste polemiche possono anche essere giuste, ma anche Obama ha avuto la sua Katrina. Il potentissimo geyser di petrolio che ha ormai inondato il golfo del Messico ha provocato danni alla fauna e alla flora marina e terrestre, oltre all’aver danneggiato gli uomini che vivono e lavorano nelle zone colpite. Obama ha davvero fatto tutto ciò che era in suo potere per risolvere la crisi andandoci giù duro con la compagnia inglese, che dopo più di un mese e a duro prezzo di vite umane, è poi riuscita (pare) a bloccare la fuoriuscita di petrolio.
 
Ora, questo insegna che le catastrofi naturali non sempre possono essere previste o prevenute, e che come era accaduto con Bush anche con Obama in questo contesto l’opinione pubblica è stata dura facendo diminuire l’indice di gradimento del presidente nei sondaggi. Insomma anche in questo caso c’è da riflettere.
Non si può però dimenticare la storica grande vittoria che Obama ha ottenuto sulla questione della sanità pubblica, una vittoria giustamente epocale che finalmente fa uscire la sanità americana da una situazione quasi da terzo mondo, dove solo i più abbienti potevamo permettersi le cure necessarie. Questo va veramente a onore del quarantaquattresimo presidente.
 
Ma anche il vecchio texano ha fatto qualcosa di buono che però è stato sommerso dalla sua sovrastante politica estera. Egli si impegnò decisamente sia per i fondi nella lotta all’AIDS – come testimoniato anche da Bono Vox, leader degli U2 e novello “buon samaritano” – sia per gli aiuti ai bambini del terzo mondo per la salute e la scolarizzazione.
 
Ma nonostante tutto ciò solo Obama ha ricevuto il premio Nobel. Alla luce di quanto detto finora è importante porsi delle domande. Non si può davvero ritenere normale che – cosa mai accaduta prima – si conceda un premio Nobel sulla fiducia, o meglio come si può affermare con certezza, almeno fino a oggi, sul nulla. A parte che questo atto delegittima la stessa serietà dell’istituzione che lo consegna; ma cosa ha fatto davvero Obama per meritarselo?
 
Ha risolto la grave situazione afghana e irachena? Ha risolto l’ormai annoso conflitto israelo-palestinese? Ha ridotto a più miti consigli la Nord Corea o l’Iran?
Ognuno dovrebbe interrogarsi su tali argomenti e darsi delle risposte. Certamente se si vuol premiare, come ha fatto la Commissione per il Nobel, le buone intenzioni, anche Bush le aveva come altri suoi predecessori e come tanti altri capi di stato nel mondo, oltre alle persone comuni; ma a questo punto bisognerebbe organizzare un evento annuale di consegna dei premi Nobel come la “Notte degli Oscar” in cui si premiano decine e decine di persone. Tutto ciò sarebbe ovviamente assurdo, ma in linea con la motivazione che ha portato l’illustre premio a Obama.
 
E ancora sarebbe interessante ricordare che se le strategie politiche di Bush avessero avuto successo, ora anche lui sarebbe considerato uno dei più grandi protagonisti della storia mondiale. Difatti democratizzare il Medio Oriente non è cosa affatto facile. Ma se un giorno – molto lontano – effettivamente dopo questi tragici anni di guerra lì le cose dovessero davvero orientarsi in maniera più vicina agli ideali di tolleranza e democrazia sarebbe certo merito dell’attuale presidente, dei suoi successori, ma anche del suo predecessore Bush.
 
Queste valutazioni non vogliono comunque inficiare la dura situazione che Obama sta affrontando a livello nazionale e internazionale o i suoi indubbi meriti, ma è utile notare come l’opinione pubblica, quella che nei secoli passati veniva definita la “massa”, è ben strana: se qualcuno dice o fa qualcosa va male, se la stessa identica cosa la dice o la fa un altro più simpatico e bonario allora è okay.
Fondamentalmente è come chiedersi:”What is the distance between a bullet and a gun” (Bon Jovi, 2009).
 
 
Note
 
Oliver Stone, W., QED International, USA 2009.
Bon Jovi, Bullet, in “The Circle”, © The Island Def Jam Music Group 2009.

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