Tagli ai "parassiti" - Lettera aperta agli operatori del sociale
Tagli ai "parassiti" - Lettera aperta agli operatori del sociale (che giovedì 9, alle ore 16, hanno manifestato in Campidoglio)
Tutte le fasce deboli – e con essi tutti noi operatori del settore - stanno pagando pesantemente i costi e le conseguenze della crisi, con la solita vecchia scusa che non ci sono soldi. D’altro canto, perché sprecare soldi per quelli che sono stati definiti “parassiti”?
Ovviamente, non è vero che “non ci sono soldi”. E' un luogo comune ripetuto ad ogni livello di governo – da quello locale a quello nazionale – per giustificare il mancato o parziale intervento a favore delle fasce più deboli della popolazione e in particolare di quelle non autosufficienti bisognose di prestazioni socio-sanitarie. La realtà è che le risorse salterebbero fuori se, per esempio, ci fosse un serio impegno delle istituzioni per recuperare l’evasione fiscale, per abbattere gli sprechi, per evitare spese e investimenti non indispensabili trasferendo i relativi fondi a settori primari come la sanità e l’assistenza, per ridurre gli acquisti – costosissimi e poco etici – di armamenti, per cessare le operazioni militari sui teatri di guerra, ecc... perché devono essere i disabili e le altre fasce deboli della società a pagare le armi, le guerre, i privilegi, gli sprechi e l'insipienza di questa casta politica incapace e parassitaria? Perché devono essere i più fragili a pagare per le casse dei comuni che sono vuote e sono vuote a causa dei demagogici tagli all’ICI voluti dal Governo sulle proprietà dei settori più agiati della popolazione? Perché devono essere gli operatori del sociale a pagare gli interessi per il debito che il Comune di Roma ha contratto con essi attraverso il ricatto della cessione dei crediti alle banche con la formula del “prosoluto”, attraverso i quale si drenano ulteriori risorse dal sociale, già sfibrato da rette insufficienti e ferme a dieci anni fa, a vantaggio stavolta delle banche?
Il refrain “non ci sono soldi” deriva anche dalle convinzioni, assolutamente negative per le fasce più deboli della popolazione, radicate nell'ignoranza e nell'egoismo della classe politica preposta a guidare le istituzioni. Da un lato, l’ancora insufficiente considerazione sociale verso le persone non autosufficienti (perché malate o "handicappate"), percepite spesso come un peso, una zavorra per la società, pertanto non come individui titolari di diritti, ma come elementi parassitari del tessuto sociale; dall’altro lato, la consapevolezza da parte di chi ci governa che detti soggetti – ed in particolare quelli più gravi, intaccati non solo sul piano fisico ma anche e soprattutto sul piano cognitivo (per esempio malati di Alzheimer o individui con gravi disabilità di natura intellettiva) – non sono in grado di protestare (per ovvie ragioni) e pertanto impossibilitate ad opporsi a provvedimenti che li riguardano (per esempio il taglio dei finanziamenti a favore dei servizi). Tra le due considerazioni, la prima (le persone disabili “freno” per lo sviluppo della società) è di tipo culturale, e pertanto forse la più odiosa. Oltre ad essere assai irrispettosa della dignità delle persone che vivono in condizioni di difficoltà e sofferenza, essa influisce nelle scelte di chi ci governa andando a discapito proprio delle fasce più bisognose della società.
Basti pensare alle affermazioni di Tremonti, nel corso di una conferenza stampa del 26 maggio 2010, quando ha affermato che “due milioni e settecentomila invalidi in Italia pongono la questione se un Paese così può essere competitivo”. Affermazione razzista, come ha detto la FISH (Fed. Italiana Superamento Handicap) , attraverso il suo Presidente, Barberi, fondata sull'idea del disabile come di un "parassita" improduttivo della società. (Certo, c'è anche da chiedersi cosa abbiamo fatto noi, operatori sociali, in questi anni, per combattere questa cultura razzista e stigmatizzante, per estirpare fino in fondo la malapianta della mentalità manicomiale che sta rialzando la testa...).
La seconda considerazione (le persone non autosufficienti non sono in grado di protestare) è assolutamente reale, ed è possibile contrastarla solo se qualcuno si adopera per dare voce alle persone non in grado di difendersi autonomamente per tutelarne esigenze e diritti. Ma questa mobilitazione tarda. Il settore dorme sonni profondi. Le iniziative intraprese raccolgono sempre adesioni tiepide, un interesse superficiale e sporadico. E’ straordinario e avvilente vedere come un settore come il nostro che ha nel “lavoro di Rete”, nell’agire-con, nella solidarietà, nella progettualità, nei processi comunicativi i propri punti di forza, non riesca ad organizzarsi, a mobilitarsi per difendere non solo le poche posizioni conquistate, ma la sua stessa sopravvivenza e la dignità delle persone destinatarie dei suoi servizi. Ma oggi che la sopravvivenza del nostro lavoro e della maggior parte delle nostre strutture è veramente a rischio, è assolutamente necessario ed urgente che tutte le organizzazioni, tutti gli operatori, tutte le professioni del sociale, si mobilitino e si facciano sentire ad ogni livello per difendere i diritti acquisiti, la nostra mission, la nostra esistenza, la dignità dei nostri operatori e dei nostri utenti, la ricchezza e la dimensione etica – e politica - delle nostre professioni.
Non è ora di uscire dalla passività, dall’acquiescenza, dall’isolamento e alla mentalità “ognuno per sé e Dio per tutti" che caratterizza il nostro settore? Dalla tendenza a curare ognuno, in perfetta solitudine, il proprio orticello e ogni sorta di rivalità, di distinguo, di gelosie…? Cosa aspettiamo a rompere finalmente questo senso di impotenza politica che da sempre caratterizza il nostro settore? Di fronte ad una crisi che va a scaricare i suoi effetti sui soggetti più deboli, è ora che anche noi, cari colleghi e cari utenti, “disabili” e non, si cominci tutti insieme a muovere il culetto. O no?
Grazie per l'attenzione.
Mario Armellini (Ed Prof, Responsabile di due strutture per disabili in Roma)
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