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Superare l’obbligo di "crescere"

L'avvio di un processo di sviluppo equilibrato e sostenibile necessita di un radicale ripensamento dei riferimenti culturali che hanno contraddistinto la lettura ideologica delle vicende economiche degli ultimi anni. Sembra, quindi, sempre più urgente un profondo ripensamento dei paradigmi di riferimento dominanti nell'ambito politico (dalla determinazione dei programmi alla comunicazione) per la definizione di “società sviluppata”.

Hegel sosteneva che i grandi eventi storici si presentano due volte. Ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” Karl Marx lo corregge: “ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Ad ogni modo, è sicuramente vero che in episodi lontani nel tempo si riscontrano similitudini rilevanti, degne di essere evidenziate per contribuire ad analizzare situazioni contemporanee. 

Il riferimento è al contesto generale dei periodi antecedenti le due più critiche crisi finanziarie dell'ultimo secolo, ed in particolare ai modelli di teoria e politica economica dominanti. Sotto il profilo culturale, gli anni precedenti il cosiddetto “giovedì nero” di Wall Street del 1929 furono caratterizzati da una visione dominante del funzionamento del sistema economico esplicitamente liberista sotto molteplici punti di vista: nelle dinamiche industriali il ruolo dei sindacati doveva essere il più possibile ridotto; mentre, per quanto riguarda l'intervento pubblico, si riteneva che questo dovesse essere estremamente limitato e, ad ogni modo, rigidamente vincolato al bilancio. In sostanza, nessuno osava mettere in dubbio l'ottimalità dei meccanismi di mercato. 

Le cose cominciarono a cambiare negli anni successivi la crisi del '29, l'uscita dalla grande depressione, anche se lunga e laboriosa, può essere ricondotta ad esperienze politiche espressione di un atteggiamento culturale ben distante dal liberismo degli anni '20: il piano di riforme economiche e sociali, note come New Deal, promosse dal presidente statunitense Roosevelt a partire dal 1933, e la realizzazione progressiva del modello socialdemocratico svedese, iniziata nel 1932. L'opera di John Maynard Keynes era penetrata nei reticolati della cultura economica, e venne così affermandosi l'importanza dei processi redistributivi, attraverso la fornitura di servizi primari, nella definizione dei sentieri per uno sviluppo sostenibile e duraturo. 

Per quanto riguarda gli anni precedenti l’attuale crisi economica, si può osservare con sicurezza che gli ultimi decenni della ricerca economica sono caratterizzati dalla riscoperta fiducia nei meccanismi di autoregolazione di mercato. A ciò ha corrisposto una progressiva delegittimazione dell'intervento pubblico nella sfera economica, determinando un ritorno alla visione dominante gli anni precedenti la crisi del '29. 

Col finire degli anni Sessanta il ciclo espansivo del dopoguerra si avviava a terminare, mentre cominciava un forte rallentamento dell'economia in cui non mancano momenti di crisi preoccupanti. L'uscita statunitense dalla recessione del 1982, e l'inizio di un nuovo periodo di crescita, apriva simbolicamente la strada ad una nuova era di egemonia culturale liberista. Sul piano concreto, solo per fare un esempio della portata di tale cambiamento di paradigma, va registrato che da quegli anni si è apertamente diffusa la tesi per cui i servizi sociali essenziali possono essere forniti con modalità efficienti sulla base di contratti assicurativi di mercato: in pratica è stata deliberatamente messa da parte tutta la letteratura riguardante la sostanziale incapacità del settore privato di coprire i rischi sociali. 

Negli anni successivi, con la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”, il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l'interventismo statale di tipo keynesiano. 

In un lavoro del 2009 per la London Review of Book, il filosofo sloveno Slavoj Žižek osservava come all’indomani della caduta del Muro di Berlino il politologo Francis Fukuyama si fosse affrettato ad annunciare i “fortunati anni novanta” e l'utopia della “fine della storia”: il trionfo della democrazia liberale sul suo ultimo grande avversario, il comunismo, apriva una fase di sicuro sviluppo globale e chiudeva per sempre l'era degli scontri ideologici. Dal punto di vista economico tutto lasciava intendere che il mercato si sarebbe imposto come modello unico ed inevitabile: l'umanità aveva finalmente trovato la formula per l'ordine socio-economico ottimale. 

Lo stesso Žižek osserva che l'utopia di Fukuyama fosse tuttavia destinata a fallire due volte: se l'11 settembre rappresenta l'avvento di un'epoca in cui crolla l'utopia politica liberal-democratica e crescono i muri di separazione, il crollo dei mercati del 2008 ha un significato storico individuabile nella fine dell'aspetto economico dell'utopia di Fukuyama.  

L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. La crisi finanziaria ha inoltre reso impossibile ignorare l'evidente irrazionalità del capitalismo globale: la ricchezza può crescere esclusivamente a condizione che venga generata ulteriore povertà. 

Tornando alla parafrasi di Hegel fatta da Marx, nell'introduzione ad una nuova edizione de “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, Herbert Marcuse sostiene che a volte la ripetizione in forma di farsa può essere più terrificante della tragedia. Ma perché il riaffermarsi di una cultura egemone di stampo liberista può avere risvolti più terrificanti della tragedia originale? 

Appare opportuno sottolineare come l'avvio di un processo di sviluppo equilibrato e sostenibile necessiti di un radicale ripensamento dei riferimenti culturali che hanno contraddistinto la lettura, in buona misura ideologica, delle vicende economiche degli ultimi anni. Non è però sufficiente denunciare vagamente l'«anomia» (l'assenza o la scomparsa di valori comunitari e di regole sociali, in antitesi alla solidarietà sociale) crescente nelle società minate dal capitalismo liberista; così come non basta affermare l'imprescindibilità della regolazione dei meccanismi di mercato, né basta sostenere un'equilibrata distribuzione del reddito. 

Quello che sembra più urgente è un profondo ripensamento dei paradigmi di riferimento dominanti nell'ambito politico (dalla determinazione dei programmi alla comunicazione) per la definizione di “società sviluppata”. L'incapacità a pensare il futuro al di fuori del paradigma della crescita economica permanente costituisce forse una delle falle principali dell'utopia neoliberista. 

Secondo una fortunata metafora dell’economista Jean-Marie Harribay, la crescita, malgrado gli evidenti guasti sociali ed ecologici che è in grado di generare, sembra funzionare come una droga pesante: quando è forte viene alimentata l'illusione che possa risolvere i problemi e che, quindi, più forte sarà la dose meglio starà il corpo sociale; quando è debole appare lo stato di astinenza, che si rivela molto doloroso dal momento che non è prevista alcuna forma di disintossicazione. 

Per questo motivo appare necessario affermare con forza una distinzione radicale tra due concetti: il miglioramento del benessere e lo sviluppo delle potenzialità umane si realizzano oltre il sentiero della crescita infinita delle quantità prodotte e consumate. 

È possibile oltrepassare questa contraddizione? Evidentemente il cambiamento può avvenire solo a condizione che ci si renda conto dell'importanza e dell'impatto che hanno le idee, mentre è destinato a fallire se il clima generale ideologico continua ad osteggiarli. 

Il rischio che corre il mondo oggi è che, a differenza di quanto avvenuto in seguito alla crisi del ’29, la risposta alle debolezze strutturali delle economie globali sia quella di perseverare in politiche che a tale debolezza ci hanno condotto: disintossicarsi dalla mancanza di crescita attraverso una più forte dose di liberismo. 

In fin dei conti il concetto di crisi significa solo che, in un dato momento storico, le logiche convenzionali non sono più adatte a risolvere le sfide del divenire sociale; e le crisi generano forti incertezze proprio perché le interpretazioni e le ricette non spiegano né risolvono le contraddizioni di tale momento. Però le crisi offrono anche la possibilità di aprire nuove epoche ed opportunità. 

Siamo coscienti di affrontare una crisi globale perché i paradigmi sui quali è stato costruito il ciclo storico che si appresta a chiudersi sembrano non poter avere continuità nel futuro. Siamo coscienti che le logiche convenzionali vigenti negli ultimi decenni possono sopravvivere soltanto al costo di forzare ancor di più le contraddizioni ed i rischi che comportano. Siamo però anche coscienti del fatto che è possibile sviluppare paradigmi alternativi, stabilire nuove rotte e tempi di transizione attraverso un nuovo processo di creatività sociale, e che sarà difficile convertire le sfide in opportunità se viene a mancare la capacità di progettare la visione di un futuro alternativo.

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