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Stati Uniti, un anno della politica “Rimanete in Messico”: costi umani spaventosi

Il 29 gennaio è trascorso un anno dall’entrata in vigore del “Protocollo sulla protezione dei migranti”, una denominazione di cui George Orwell sarebbe andato fiero, a seguito della quale l’amministrazione Trump ha iniziato a respingere forzatamente persone in Messico nell’attesa che la loro richiesta di asilo politico venisse esaminata.

Quella politica, che opportunamente è conosciuta col nome “Rimanete in Messico” ha fatto sì che dal gennaio 2019 circa 60.000 persone giunte al confine statunitense dopo aver attraversato tutto il Messico sono state costrette a restare in quest’ultimo paese in una situazione di rischio estremo.

Nell’ultimo anno Amnesty International ha ascoltato testimonianze di terribili atti di violenza contro donne incinte, minori non accompagnati, persone con disabilità, omosessuali.

Vi sono state, nello stesso periodo, 816 denunce di rapimento, estorsione, stupro, tortura e omicidio ai danni di richiedenti asilo bloccati in Messico.

La politica “Rimanete in Messico”, che ha rovesciato la tradizionale politica statunitense di esaminare le richieste di asilo all’interno della frontiera, ha dato luogo a una crisi tale per cui meno del 5 per cento dei richiedenti asilo bloccati in Messico sono stati in grado di avere assistenza legale.

Oltre alla violenza e alle procedure sommarie vigenti per determinare lo status di rifugiato, a rendere il Messico un paese non sicuro è la circostanza che le autorità di questo stato rimandano a loro volta indietro i richiedenti asilo verso i luoghi di origine: soprattutto El Salvador, Guatemala e Honduras, paesi in cui la violenza continua a essere generalizzata e i tassi di omicidio sono da quattro a otto volte più alti di quelli che l’Organizzazione mondiale della sanità considera “epidemici”.

Amnesty International ha chiesto al Congresso di togliere i finanziamenti a questa politica inumana.

 

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