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Something about "The Collettivo"

Il debutto di questi napoletani è una sorpresa che non ti aspetti. E’ la conferma di una città in fermento, cosmopolita che non vuole rimanere attaccata alle radici, bensì espanderle e perché no migliorarle. Prodotto dalla neonata Materia Principale il disco ha ottenuto la distribuzione di Family Affair, oramai un passo essenziale quanto difficile da ottenere. “Something about Mary Quant” è un titolo divertente che guarda alla rivoluzione culturale facendo piccole cose.
Nella loro musica traspare un’incredibile sensibilità pop, sono inarrestabili sul palco, impeccabili su album, i The Collettivo sono sicuramente una ventata di freschezza nel panorama musicale italiano.

Rock, dance, elettro, new wave, post punk...insomma cosa sono i The Collettivo?
Probabilmente un mix di questi elementi, tenuti insieme dalla voglia di creare canzoni quanto più possibile immediate e dirette.

Come affrontate il rischio di essere etichettati come l’ennesimo gruppo che guarda alle new big thing inglesi? Cosa vi differenzia e qual è la vostra forza?
Semplicemente non ponendoci il problema. Ci limitiamo a suonare quello che più ci piace, quello che ci viene naturale. E poi va detto che tutto questo è la logica conseguenza delle influenze musicali ricevute: sebbene napoletani e orgogliosi, non siamo cresciuti a pane e tarantella. La nostra forza è forse il conservare il calore e l’istintività tipicamente latina (questo è anche quanto ci differenzia dai Made In England).

Da cosa nasce il titolo “Something about Mary Quant”? E soprattutto di chi è il lavoro dietro alla copertina?
Dal desiderio di omaggiare un grande rivoluzionario, per giunta senza barba nè inevitabili connotazioni politiche. Una donna che tagliando un pezzo di stoffa ha cambiato una generazione: geniale. Il lavoro dietro la copertina nasce dall’incontro con una talentuosa artista come Paula Sunday, autrice delle foto, e dal paziente lavoro di progettazone grafica ad opera di Dario Sansone (tra l’altro graziante voce della band napoletana dei Foja) e Simone Veneroso.

Come nascono i pezzi che scrivete?
Nessuno di noi scrive mai canzoni nel silenzio di casa propria, per poi proporle finite agli altri. Piuttosto partiamo tutti insieme da un’idea di basso, da un riff di chitarra o tastiere, per poi improvvisarci su una melodia e successivamente un testo. Le nostre canzoni sono oggettivamente il prodotto di cinque menti che interagiscono.



So che avete appena ultimato il video. Ce lo descrivete? Con chi l’avete girato? Come avete scelto il singolo da lanciare?
In verità non ne sappiamo granchè, nel senso che lo staff di Simone Veneroso e Dario Sansone, ideatori e realizzatori, non ci hanno ancora mostrato il lavoro ultimato; riponiamo comunque grande fiducia nei ragazzi che consideriamo come parte integrante del nostro progetto. Sarà una sorpresa anche per noi scoprirci attori improbabili. Una cosa a cui teniamo è ringraziare l’attore protagonista del clip: Antonio "Collie" Lerro, un’autentica esplosione di comicità. Per quanto riguarda il singolo, e’ stata una scelta quasi obbligata, visto che l’idea di fare un videoclip su Selfish è nata all’inizio della nostra storia, quando il pezzo era una delle primissime canzoni che avevamo.

Chi è il vostro tipico ascoltatore? Che musica gli piace?
Probabilmente è uno che ci somiglia molto più di quanto lui sospetti. La gente che di solito viene a sentirci, soprattutto quelli che incontriamo ai concerti, sono persone semplici, schiette, con il sacrosanto desiderio di ballare e cantare, piuttosto che sorseggiare un long island in fondo alla sala concerti con lo sguardo da critico musicale scafato.

Ho letto anche stupore al pensiero che un gruppo napoletano facesse la musica che fate voi. Eppure c’è un movimento non indifferente che viene da Napoli, oggi. Ne discutevo anche con Giglio dei Gentlemen’s (altra faccia della medaglia di quello che succede a Napoli).
I tentativi di cambiare le cose generano sempre stupore, o peggio ancora diffidenza e ostruzionismo. Tuttavia è evidente che negli ultimi anni a Napoli sia andato propagandosi un movimento spontaneo di band che guardano all’idea di Europa unita anche nella musica, piuttosto che uniformarsi all’idea di condominio Italia o Napoli che sia. Nessuno scredita il valore storico della tradizione, ma prende piede un desiderio di comunicare col mondo nel linguaggio del mondo. Noi siamo molto amici degli Atari e dei The Gentlemen’s Agreement, coi quali siamo soliti scambiarci idee e opinioni musicali: ci piacerebbe vedere l’attitudine estesa a tutte le band con propositi simili.

Cosa portate della vostra città nella musica che fate, se ha senso portare qualcosa...
Un uomo che rinnega le sue radici è un uomo pericoloso. Partiamo da questo concetto. Noi ci sentiamo immensamente napoletani, sebbene non reputiamo fondamentale esprimerlo cantando ’O Sole Mio o rappando la mala politica o il disagio delle periferie. Per noi essere napoletani coincide con l’esprimere un modo di essere goliardico e battagliero al tempo stesso, quel talento di saper regalare un sorriso in ogni momento, l’arte di sdrammatizzare e sdrammatizzarsi piuttosto che piangersi addosso. E poi di Napoli, diciamo così, portiamo addosso anche gli abiti, dal momento che l’incontro con i ragazzi Lait Lab, giovani napoletani che con la forza dell’entusiasmo cercano di farsi spazio negli ambiti della moda, ha prodotto una grande amicizia e una collaborazione fattiva.

In quale luogo si dovrebbe ascoltare la musica dei Collettivo? (in stanza con gli amici, al parco con una ragazza, a un concerto punk rock, con l’ipod, a occhi chiusi mentre si sta cercando di passare tra i cavalli di piazza del Plebiscito...)
Non è un fatto di luoghi, quanto di predisposizione mentale. Vorremmo che chi ascolta la nostra musica sapesse chi la sta suonando, cosa pensa e a cosa aspira. Magari basterebbe esprimerlo in un umile pensiero: anche se il mondo talvolta sembra fare davvero schifo, c’è sempre il tempo e il modo di creare divertimento e ottimismo. Noi più o meno la vediamo così. Poi se ci ascolti in bagno o mentre fai footing non fa differenza.

Commenti all'articolo

  • Di Antonio Lamorte (---.---.---.167) 21 febbraio 2009 15:02

     Ricordo un napoletano di colore. A vederlo sembrava il Jimi Hendrix del Sassofono...
    Faceva jazz e fusion e progressive e altro altro ancora, ma non perse il suo dialetto e le sue radici...
    Quindi bravi ragazzi...belle idee...
    Vi ascolterò...
    Grazie dell’ascolto

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