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Siria: il nuovo capitolo di un conflitto infinito

Si è surriscaldato improvvisamente il fronte siriano.

Si è surriscaldato dopo che la questione palestinese aveva tentato di prendere di nuovo un posto di primo piano nelle agende internazionali, a partire dall’improvvida dichiarazione con cui Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele (ma non “indivisibile” come hanno subito cercato di far credere alcuni furbetti) per finire con l’organizzazione delle insensate “marce del ritorno” che dovrebbero costellare di “martiri” ogni venerdì da qui al 15 maggio pur di dimostrare al mondo che Hamas ha ancora qualcosa da dire.

Ma la questione siriana si è precipitata a riprendersi il posto che le spetta, rigettando i poveri gazawi nell’ombra dell’irrilevanza cui sono stati costretti dall’isolamento internazionale e, in buona misura, dalla suicidale politica dei loro governanti.

Il nuovo attacco con i gas a Douma (alcune fonti parlano di almeno 70 morti) ha fatto scattare due rappresaglie.

La prima è consistita in un attacco aereo “misterioso” (israeliano dicono alcuni analisti, ma non c'è alcuna prova) contro la base iraniana in territorio siriano denominata T-4 da cui pare che sia partito l'aereo responsabile dell'attacco sulla città.

La seconda in un’impennata dei toni irati e bellicosi di Donald Trump. Che ora promette sfracelli dopo che una settimana fa aveva dichiarato di voler abbandonare il quadrante siriano.

Sulle questione dei gas gli analisti in realtà sono divisi: a fronte di quelli che accusano senza mezzi termini Bashar al Assad ci sono quelli che, con qualche ragione, ne sostengono l’innocenza (“sta ormai vincendo la guerra, perché dovrebbe gasare la sua stessa gente?” è il refrain), ed altri ancora che tentano di sviluppare un qualche ragionamento.

Ad esempio Lorenzo Declich, autore di libri sulla Siria e sull’Islam, che sul settimanale Left disegna un quadro interessante: sarebbe stato proprio il regime ad usare i gas come monito ai suoi stessi alleati. «Con questo attacco - dice - Assad cerca di farsi spazio al tavolo a cui siedono le potenze regionali che si stanno spartendo la Siria, spartizione che è già in corso… il cui scopo è sempre quello di mandare un messaggio, non solo ai ribelli suoi nemici, ma anche ai suoi alleati principali, Iran e Russia. E il suo messaggio è “io posso generare caos, posso creare indignazione nell’opinione pubblica mondiale come e quando voglio, quindi anche io voglio poter dire la mia sulla spartizione della Siria”».

In sintesi un avvertimento - a pochi giorni dal vertice di Ankara - agli alleati Turchia, Iran e Russia di non allargarsi troppo, che deriva da una posizione di estrema debolezza del raìs nei confronti di quelli che gli hanno salvato la poltrona e dal loro disinvolto espansionismo: «Assad ha svenduto completamente il suo Paese per rimanere al potere: sia la Russia che l’Iran stanno infatti facendo tutto ciò che vogliono in Siria, sia in termini militari che economici». Per non parlare della Turchia.

Ma in special modo, è lecito supporre, si rivolgerebbe agli iraniani che, installando le loro basi sul territorio siriano per consolidare quel corridoio sciita che percorre tutto il Medio Oriente da Teheran al Mediterraneo, potrebbero far precipitare il paese nel catastrofico e sempre più possibile scontro Iran-Israele, con conseguenze ovviamente devastanti per quel che resta della Siria.

Di diverso avviso Alberto Negri, che su Tiscali News titola «Le armi chimiche contro gli innocenti per costringere Trump a fare la guerra», attribuendo agli avversari del regime, ormai alle strette, l’intenzionalità esplicita di giocare il tutto per tutto pur di assicurarsi l’intervento del più forte alleato possibile; assolvendo nello stesso tempo il governo: «Per il regime utilizzarle adesso avrebbe poco senso: Damasco ha raggiunto un accordo con il gruppo jihadista Jaish al Islam, sostenuto dall’Arabia Saudita, per evacuare i combattenti e le loro famiglie a Jarablus».

In questo quadro molti puntano il dito contro Israele, non solo per il raid - uno fra i tanti in questi ultimi sette anni - quanto sulla provenienza del gas. Conclusione su cui è lecito dubitare dato che lo stato ebraico non ha alcun bisogno di “chiamare” in soccorso gli USA con qualche sotterfugio né di mandare avvertimenti a qualcuno. Quando la linea rossa stabilita a Tel Aviv viene superata, o con l’uso di gas o con il trasferimento di armi sofisticate a Hezbollah, Israele non avverte, colpisce e torna a casa. Tutti lo sanno e tutti se lo aspettano.

Oltretutto non ha mai considerato il regime siriano un nemico più pericoloso del caos che si è determinato in Siria in questi anni. È anzi plausibile pensare che ritenga più pericolosa una situazione poco prevedibile e ingovernabile piuttosto che un governo di Assad in pieno controllo del suo territorio come è stato negli ultimi quarant'anni e più (benché i due paesi non abbiano mai sottoscritto un trattato di pace formale fin dal conflitto del 1948).

Ben diversa la situazione in cui si trova l’Arabia Saudita dello scalpitante principe ereditario Mohammed bin Salman che si trova sempre più isolata fra i “perdenti” dello scontro sunniti-sciiti dopo che la Turchia le ha girato le spalle, allineandosi con russi e iraniani, pur di compiere il suo lavoro sporco sui curdi, recentemente abbandonati anche dagli americani.

Dalla terra dei Saud potrebbe effettivamente essere arrivata la provocazione di un attentato con armi chimiche finalizzate a richiamare l’attenzione ondivaga di Donald Trump e del suo nuovo, bellicosissimo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton (la cui nomina non promette niente di buono).

In conclusione che il responsabile dell'uso dei gas sia stato Bashar Assad o Mohammed bin Salman, la superpotenza americana sembra di nuovo essere risucchiata nel buco nero creato in Medio Oriente dai Bush e mai riempito da Obama; dentro una guerra che sembra non voler finire mai.

Potrebbe anzi aprirsi ora il capitolo più pericoloso del conflitto dato che non è escluso che possano scendere in campo i big.

 

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