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Siino e la trattativa: la testimonianza dell’uomo degli appalti di Cosa Nostra al processo Mori

Il 18 maggio scorso, durante l’udienza del processo che vede coinvolti il generale Mario Mori ed il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e la trattativa tra Stato e mafia, i giudici hanno sentito il pentito Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, l’uomo degli affari da trentamila miliardi di lire, collaboratore di giustizia dal 1997. Le sue dichiarazioni sulla vicenda mafia e appalti avevano già scatenato una grave querelle tra il nucleo dei carabinieri del Ros e la procura di Palermo. Siino ha raccontato di aver dato alle forze dell'ordine informazioni preziose per assicurare la cattura di Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano. Proprio quest'ultimo sarebbe stato mancato per un soffio dal colonnello Gian Carlo Meli. Ma Siino ha svelato anche la natura di certi rapporti all'interno di Cosa Nostra, come quello tra Vito Ciancimino e Totò Riina.

Gli incontri.

Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia chiede ad Angelo Siino se ha avuto colloqui con persone appartenenti alle forze dell’ordine prima della sua collaborazione con la giustizia.
 
“Sì, risponde il pentito, ho avuto parecchi incontri sollecitati da loro, mi venivano a trovare in carcere per convincermi a collaborare e nello stesso tempo ottenevano delle notizie da parte mia”. “Di chi sta parlando? Chi erano?”, domanda Ingroia. “In carcere venne l’allora capitano De Donno ed il colonnello Mori, poi anche altri personaggi appartenenti alla polizia, allo SCO (il Servizio Centrale operativo della polizia di stato, Ndr), il dottor Caldarozzi, il dottor Rino Monaco, il dottore… non lo ricordo, uno dei capi della squadra”.
 
I colloqui con i carabinieri del Ros, a dire di Siino, ebbero inizio il giorno della deposizione del capitano De Donno al processo mafia e appalti, nel quale lo stesso Siino era imputato d’eccezione. Subito dopo il capitano sarebbe andato a fare visita in carcere al futuro pentito. I colloqui sarebbero iniziati dunque nel 1992-’93.
 
“Vennero nella mia cella a Termini Imerese e cercarono di farmi parlare in tutti i modi e in tutte le maniere, facendomi delle promesse (mi dissero che avrebbero rivisto la mia posizione). Poi venni quasi rapito e mi portarono nella caserma dei carabinieri di Termini Imerese”. Dove l’interrogatorio sarebbe continuato malgrado un momento di tensione tra De Donno ed il comandante della caserma che avrebbe voluto assistere, mentre il capitano gli avrebbe intimato bruscamente di andarsene.
 
Colloqui che si intensificarono fino a quando Siino non venne condannato -cosa che gli venne “predetta” da Mori - e che continuarono al carcere romano di Rebibbia ed a quello di Carinola. “Eravamo da soli con Mori e De Donno, o solo con quest’ultimo”.
 
“Quando ero agli arresti domiciliari all’ospedale Umberto I il capitano De Donno quasi ogni sera veniva a trovarmi”, e “rimanevano a parlare anche due o tre ore”, cosa che preoccupava Siino, spaventato all’idea che qualcuno possa vederli e che si sparga l’idea che avesse già cominciato a collaborare.
 
L’avvocato di Siino all’epoca era Nicolò Amato (ex Direttore generale degli istituti di prevenzione e pena, nonché legale di Vito Ciancimino), che si prodigò per ottenere per il suo assistito gli arresti domiciliari per motivi di salute.
 
A precisa domanda del pubblico ministero Siino risponde che ad un incontro fu presente anche quest’ultimo: “l’avvocato Amato mi mise in contatto con Mori e De Donno, ci incontrammo al policlinico (a quanto pare nello studio di tale professore Marino, Ndr) e questi mi dissero che non potevano fare niente per me perché la procura di Palermo era loro contraria”.
 
L’avvocato Amato avrebbe assicurato una “maggiore riservatezza” all’incontro, organizzandolo appunto nell’ufficio di un professore del reparto di cardiochirurgia, visti i timori di Siino e l’imprudenza dimostrata da De Donno, imprudenza che gli sarebbe stata rimproverata più volte dallo stesso Mori.
“Amato difendeva parecchi personaggi che allora erano sulla cresta dell’onda. Lo scelsi perché credevo che avrebbe potuto perorare al meglio la mia causa.” Siino lo nominò poco tempo dopo che quest’ultimo si era dimesso da magistrato. “L’avvocato Amato mi ha salvato la vita”, dice sicuro il pentito. 
 
L’oggetto dei colloqui.
Il Pm Antonio Ingroia entra allora nel merito del contenuto dei colloqui. A domanda risponde, Angelo Siino, pur tra mille divagazioni: “mi vennero chieste informazioni relative alla cattura di latitanti, in particolare Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca”. Siino si sarebbe accorto molto presto del fatto che i carabinieri non sapevano cose che per lui erano assolutamente evidenti e “note a tutti”. “Provenzano non faceva niente per nascondere la sua latitanza”. Da principio Siino è riluttante, ha paura per la sua vita “ma, afferma, diedi comunque informazioni precise al fine di catturare Provenzano. Mi meravigliai del fatto che non l’avessero preso”.
 
“Per quanto riguarda Brusca mi era facile dare informazioni sulle località nelle quali viveva”. Il pentito avrebbe fatto sapere ai carabinieri che l’esecutore materiale della strage di Capaci si trovava in località Cannitello, provincia di Agrigento (dove venne poi effettivamente arrestato). Brusca gli avrebbe persino fatto visita in ospedale, mentre Siino era agli arresti domiciliari.
 
Siino avrebbe dato diverse indicazioni su dove si trovasse all’epoca Bernardo Provenzano. Disse che era il “padrone di Bagheria”, e che sarebbe stato necessario cercarlo lì.
 
Siino indicò tra gli altri luoghi Contrada Traversa, in località Casteldaccia, in provincia di Palermo, dove Provenzano sfuggì per caso alla cattura: “venni contattato dal colonnello Meli, che allora comandava il gruppo di Monreale, credo. Mi portò in giro per mezza Sicilia (nonostante fossi agli arresti domiciliari) chiedendomi di fargli vedere tutti i posti nei quali potesse trovarsi Provenzano. In una di queste occasioni in una località aspra, incontrammo una Mercedes blindata sulla quale si trovava Carlo Guttadauro, che aveva a bordo con sé lo stesso Provenzano. Gridai: è Provenzano, è Provenzano! Il colonnello Meli fu talmente sorpreso che non riuscì a reagire e Guttadauro si allontanò velocemente. Di questo fatto c’è traccia perché il colonnello Meli, da buon carabiniere, mi registrava. Questo episodio si può sentire sul nastro rilasciato alla procura di Caltanissetta”.
 
Siino collaborava per ottenere gli arresti domiciliari, ma non riuscì ad ottenere niente. Né, sempre a suo dire, niente venne dal punto di vista investigativo per quel che concerne Provenzano. L’avvocato Amato lo consigliò allora di cambiare interlocutore e gli fece il nome di Rino Monaco, insieme a quello dell’allora capo della polizia.
 
“Al che mi dissero che bisognava cambiare bersaglio e concentrarsi di più sulla cattura di Brusca (…) Vidi una notevole preoccupazione nel volerlo catturare, seppi dopo che ci si muoveva in tal senso per ottenere informazioni sul sequestro del piccolo Di Matteo”. Le informazioni date da Siino, a quanto dice lui, sarebbero state determinanti per catturare Giovanni Brusca.
 
“Malgrado tutte queste mie informazioni nun si pigghiau a nuddu (non venne catturato nessuno, Ndr)”. Anche se Siino afferma, contestato dall’avvocato Milio, che i carabinieri guidati dal capitano Ultimo fecero appostamenti tecnici nelle zone indicate: “il capitano Ultimo stette una notte intera su una montagnola di fronte al covo di Provenzano, col rischio di morire assiderato”.
 
Da Provenzano si passa all’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Siino venne a sapere da De Donno che questi era sul punto di collaborare: “ma io che lo conoscevo bene dubitavo che questi gli raccontasse la verità”.
I due uomini di Cosa Nostra con le mani in pasta nel business del calcestruzzo non si vedevano però di buon occhio. “Ciancimino era stato un mio nemico. Mi odiava perché in un certo senso mi vedeva come erede del suo ruolo, così non era, perché il suo ruolo era stato molto più ampio”.
 
Siino racconta di un episodio che mostra bene le proporzioni degli stretti legami che correvano tra Democrazia Cristiana, mafia e appalti nella Sicilia di allora: “Brusca chiese a Ciancimino di darmi un appalto, e questi mi diede un lavoro da niente, da 70 milioni di allora. Io stigmatizzai la cosa e lui mi rinfacciò di essere stato amico del colonnello Russo, cosa di cui vado orgoglioso” (il tenente colonnello Giuseppe Russo fu giustiziato il 20 agosto 1977 da un commando mafioso formato da Riina, Bagarella, Giuseppe Greco e Giovanni Brusca. Russo dava la caccia a “Totò u curtu”, e tra i suoi informatori c’era proprio Angelo Siino, Ndr).
 
“Ciancimino aveva fama di essere grande ‘tragediatore’, accusa massima per un siciliano (…) Riina non lo poteva vedere, diceva che era un barbiere mancato, lo chiamava ‘Vito Pompa’, un signor nessuno che era diventato qualcuno per caso”. A quanto pare Riina avrebbe avuto voglia di fargli “il cappottino” (avrebbe voluto ucciderlo), ma Ciancimino era “coperto” da Provenzano. “Zu Binu” diceva che Ciancimino era una persona di cui Cosa Nostra poteva servirsi, che aveva “molti affari per le mani”, nonostante questi trattasse il capo dei capi con sufficienza (“gli dava dell’ignorante, si sentiva domineddio”). “Ciancimino era pericoloso, dice Siino, pericolosissimo”.
 
Ingroia chiede quindi a Siino se venne a sapere qualcosa della presunta trattativa tra Ciancimino e Mori o delle manovre per l’attenuazione del 41 bis. “Assolutamente no”, risponde con sicurezza Siino. “So che [Ciancimino] si stava occupando di cose politiche, quali non saprei. Se ne occupò anche quand’era in carcere”. Ma di preciso Siino non sa niente: “i contatti di Ciancimino erano multiformi. Aveva contatti con tutti e con tutti aveva “tragediato”. Molte di queste situazioni potevano essere parti della sua mente. O potevano anche essere vere. Detto onestamente, Ciancimino era un rebus”.
 
Sulla mancata revoca del carcere duro per i mafiosi però, Siino dice qualcosa di molto interessante: “quando ero in carcere a Termini Imerese revocarono il 41 bis ad alcuni carcerati, ma non so chi. Nello stesso periodo Bernardo Brusca (padre di Giovanni, Ndr) mi disse ‘Angeluzzo sta calmo che tra poco ce ne andremo tutti a casa’”.
 
Da Ciancimino padre si passa al figlio. Ingroia chiede informazioni su Massimo Ciancimino e del suo ruolo di postino per conto del padre. “Conoscevo Massimo molto bene dai salotti e dalle strade palermitane. Lipari (Pino Lipari, “consigliori” politico-economico di Provenzano, Ndr) mi aveva incaricato di limitare le sue spese, ma era un’impresa impossibile. Si era comprato una Ferrari, una barca sulla quale portava tutte le ragazze di Palermo, per non parlare degli orologi d’oro, spendeva e spandeva”.
 
Attorno al 1987-88 Massimo Ciancimino si sarebbe occupato di un affare di duecento milioni di lire (soldi derivati dalla riscossione del pizzo) nel quale era coinvolta la ditta Cozzani e Silvestri, allora appaltatrice della manutenzione delle strade di Palermo. Per risolvere la faccenda Ciancimino jr. avrebbe detto a Pino Lipari: “fammi avere un incontro con Binu (Provenzano, Ndr).
 
L’avvocato Milio della difesa chiede infine a Siino quale fosse la considerazione su Massimo Ciancimino all’interno di Cosa Nostra. “Zero”, risponde Siino. “Era un contafrottole, un personaggio sul quale non si poteva avere alcun tipo di fiducia e che oltretutto pendeva dalle labbra del padre”. 

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