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Sequestro Moro, un lato oscuro mai illuminato

Ne parla Renato Guttuso in questa lettera (del 1978) a Leonardo Sciascia.

di Agostino Spataro

Sulla tragica vicenda del sequestro e dell’assassinio dell’on. Aldo Moro ci furono le lettere dello statista democristiano dalla prigione delle BR (le conosciamo tutte o solo una parte?) analizzate e interpretate da Leonardo Sciascia polemicamente e in controtendenza, ma vi furono altre lettere, note o rimaste riservate, fra le quali queste scambiate fra Renato Guttuso e Sciascia, (casualmente da me rinvenute presso la fondazione Gramsci di Roma) in cui il pittore mette il dito nella piaga quando afferma una verità evidente eppure raramente rilevata.

Nella lettera, Renato Guttuso evidenzia, con acutezza di osservazione, un lato tuttora oscuro della tragica vicenda di Aldo Moro. Domanda e si domanda: chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Ma non c’è un mediatore. Guttuso chiude con un pesante “ Perché?” . Lasciando a Sciascia la facoltà di rispondere agli interrogativi e alla classe politica del tempo il dovere di chiarire i suoi, anomali comportamenti durante quei 55 giorni che cambiarono, deviarono la storia d’Italia, della democrazia repubblicana.

“Moro è mediatore delle BR, ma chi è il mediatore tra Moro e i partiti? Craxi accenna a volerlo fare (cancellatura) ma non lo fa. Perché? Di questa dolorosa vicenda (cancellatura) mi pare tu veda solo un aspetto (anche se molto importante): il potere uccide Moro. Ma Moro è lui stesso il potere, lo è fino al momento del suo sequestro, e cerca di (cancellatura) continuare a esserlo pur da prigioniero; ma la vicenda ha molti altri risvolti.”

Una sottile annotazione- quella di Guttuso - che, ancora oggi, può essere usata come una chiave per aprire, e scoprire, uno scenario politico inquietante da cui i partiti si ritrassero. Volutamente.

Una sensazione che avvertii anch’io (deputato comunista senza galloni) per il fatto che durante la lunga prigionia di Moro (quasi 2 mesi!) il Parlamento, la più alta rappresentanza della sovranità e della volontà del popolo italiano, non svolse un ruolo, un’azione unitaria all’altezza del gravissimo dramma che si stava consumando, per la ricerca della verità e, soprattutto, del nascondiglio in cui era ristretto Moro. Per liberarlo.

Il fatto sarà notato anche da Sciascia il quale- nella sua risposta a Guttuso - scrive: “Quel che leggo in questi giorni sui giornali, riguardo al cosidetto dibattito in parlamento, mi atterrisce: mai il parlamento italiano è stato così esemplarmente negato alla verità, così negativo nei riguardi della verità, come in questo momento…”

A pagina 6 della sua lettera, Guttuso continua a incalzare Sciascia quasi accusandolo di anticomunismo inveterato, preconcetto: “Debbo dirti che questo fatto è per me causa di grande dolore…anche quando non c’è necessità (o io non ne vedo la necessità) tu dai un colpo al partito comunista.”

Sciascia così risponde all’accusa: “Questa mia esperienza (elezione al consiglio comunale di Palermo - n.d.r.), che è anche tua, è proiettabile sulle cose d’Italia. Ed è la mia accusa al PC. E non solo mia…Io ho raccontato sul Corriere quel che mi ha detto il contadino, mio vicino qui, al principio dell’estate, dopo le elezioni del 13 maggio in cui per la prima volta il suo voto non era andato al PC…Di questa gente era fatto il PC: gente che voleva verità, giustizia, conoscenza. E dico era fatto perché anche se ancora molta ce ne sta dentro, è come se non ci fosse… Mai la politica di un partito è stata così astratta dalla realtà del paese, dalla realtà dei propri elettori, come quella del PC oggi…”

A un certo punto, Guttuso, parlando dei rapporto degli intellettuali e il Pci, ricorda la clamorosa polemica tra Togliatti e Vittorini, e così annota: “Vittorini dissentiva senza mai diventare “anticomunista quotidiano”…Vittorini però credeva alla mia lealtà di comunista…Con te ho, a volte, l’impressione (perché so che mi sei amico e credo tu abbia per me affetto e tanta simpatia (chista è a futtuta!) che tu sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le difficoltà, i problemi, ecc) un comunista… Quanto a me, nei tuoi confronti so benissimo che non potresti essere diverso da quello che sei.”

Sciascia così risponde all’amico pittore: “Ed ecco che vengo al punto dei nostri rapporti. Mi dici di avere a volte l’impressione che io, nonostante la simpatica e l’affetto che ho per te, sia amareggiato dal fatto che tu continui ad essere comunista. Posso assicurarti di no. Tu sei comunista così come io non lo sono. Ho detto una volta, e mi è parso di renderti omaggio nel tuo essere comunista, che tu sei roso dalla certezza come io dal dubbio. Piuttosto, quel che mi amareggia di te è quel tuo non dare quel che la gente da te si aspetta: da te in quanto Renato Guttuso, da te anche in quanto comunista. Se, per esempio, tu ti levassi in parlamento a dire…” “ Le ragioni per cui tu ed io eravamo stati chiamati ad occupare quegli scranni (nel consiglio comunale di Palermo - n.d.r.), praticamente non esistevano. Esistevano soltanto ragioni elettoralistiche: tanto è vero che tu sei stato spostato al senato e io- non dovendo al partito una obbedienza uguale alla tua- ho preso in diverso modo atto della mia inutilità al consiglio comunale, rifiutando la “promozione” al parlamento regionale o nazionale e dimettendomi…”

Da quel che ricordo, l’elezione al consiglio comunale di Palermo, nel 1975 nelle liste del Pci, fu la risultanza di un processo di avvicinamento di Sciascia sollecitato da Achille Occhetto che nel 1972 era subentrato a Emanuele Macaluso nel ruolo di segretario regionale del Pci. In nome del rinnovamento, della lotta al notabilato “rosso”, Occhetto chiamò in segreteria e alla guida di alcune federazioni provinciali alcuni compagni “esterni”.

Qualcuno parlò di “colonizzazione” del partito siciliano. Leonardo Sciascia, invece- mi dirà alla Camera- vide di buon occhio il cambiamento, la “calata” in Sicilia di questi giovani dirigenti del nord, anche se rimase restio verso l’adesione a un partito-chiesa come un po’ gli appariva il Pci, verso il quale, per altro, aveva accumulato talune perplessità riferite a fatti antichi (la contrastata esperienza del milazzismo) e più recenti riconducibili alla segreteria di Macaluso.

Occhetto e i suoi inviati del Nord garantirono a Sciascia che quel tempo era finito, per sempre, che, con loro, si apriva una fase nuova, una sorta di rivoluzione copernicana della politica siciliana. Lo scrittore- ammetterà- che un po’ si lasciò sedurre dai discorsi di questi giovani “colonizzatori” i quali, provenendo dal nord, erano immuni dai difetti mostrati dai dirigenti siciliani.

Perciò ruppe gli indugi e nel 1974 partecipò attivamente alla campagna referendaria e l’anno successivo accettò la candidatura, come indipendente, a consigliere comunale di Palermo nella lista del Pci. Ma, a pochi mesi dall’insediamento, presentò le dimissioni da consigliere e sarà seguito, a ruota, da Guttuso. Lo scrittore motivò la sua inattesa decisione con i lunghi ritardi sui tempi d’inizio delle sedute e in generale col confuso andamento dei lavori d’aula. Tutto ciò era vero, ma oltre quelle motivazioni c’era un disagio politico che lo inquietava.

Probabilmente, Sciascia, in quei pochi mesi d’impegno attivo nel gruppo consiliare del Pci, cominciò ad avvertire una certa delusione rispetto alle attese e alle promesse di cambiamento annunciate da Occhetto e dai suoi inviati.

Dal sale siciliano agli intrighi internazionali del terrorismo.

Giacché siamo in argomento mi sembra utile ribadire come e perché si giunse alla clamorosa polemica con Enrico Berlinguer, con lo stesso Guttuso. La vicenda, che avrà anche strascichi giudiziari, si originò, involontariamente, durante un incontro del 6 maggio 1977, a Botteghe Oscure, con il segretario generale del Pci.

Detto incontro- come Sciascia chiarì all’Espresso (e disse a me nelle chiacchierate a Montecitorio) “era stato richiesto da me, tramite Guttuso, abbiamo parlato soprattutto di cose che riguardavano l’industria estrattiva siciliana, sulla base di un memoriale che aveva scritto un mio amico e che io consegnai a Berlinguer… Esaurita la conversazione sul memoriale siamo passati al (tema del ) terrorismo…”. (L. Sciascia, intervista a “l’’Espresso”)

Quali erano queste “cose che riguardavano l’industria estrattiva siciliana”? Che cosa era successo? Lo scrittore si riferiva, in particolare. alla fusione, realizzata negli anni ’70, fra la Realmonte-Sali (società dell’Ente minerario siciliano) e la Sams dell’avvocato Francesco Morgante, potente imprenditore del sale e intimo dell’ex presidente dc della regione on. Giuseppe La Loggia.

Sciascia conosceva bene la vicenda perché edotto dal prof. Antonio Lauricella, sindaco dc di Grotte, comproprietario di una miniera di salgemma in territorio di Petralia minacciata dal piano Ems-Sams. Lauricella consegnò a Sciascia un dettagliato memoriale dal quale si evidenziavano la supervalutazione degli apporti privati (Sams) e i comportamenti quantomeno distratti dei partiti politici di maggioranza e d’opposizione. Lo scrittore prese a cuore la questione e la girò ai suoi amici del Pci, facendone una sorta di banco di prova per verificare la loro coerenza politica. Vista la sordità dei suoi interlocutori locali siciliani, pensò bene di rivolgersi direttamente a Enrico Berlinguer. E in questa circostanza nacque l’inghippo. Poiché – “Esaurita la conversazione sul memoriale siamo passati al (tema del ) terrorismo…”.

Renato Guttuso senatore del collegio di Sciacca

In questo passaggio Sciascia rimprovera all’amico Guttuso la sua delusione per lo scarso impegno parlamentare del pittore che nel 1976 era stato eletto senatore nel collegio di Sciacca. “Vedi, io parlo di te qualche volta, ogni volta anzi che vengono qui a trovarmi, con dei giovani di Sciacca che ti hanno dato il voto. Sono delusi, mortificati. Hanno votato Renato Guttuso: un grande pittore comunista, un grande intellettuale comunista. Ed è come se avessero votato quel Cipolla che ti ha preceduto nel loro collegio… Scusami di questa un po’ brutale conclusione della lettera; ma spero la metterai in conto dell’ammirazione che ho per la tua arte e per la tua intelligenza, della simpatia e dell’affetto che ho per te. Ti abbraccio. Leonardo.”

Agrigento, giugno 1976. Manifestazione elettorale del Pci. Da sin: il poeta I. Buttitta, M. Figurelli, R. Guttuso (candidato nel collegio senatoriale di Sciacca), il prof. E. De Miro, A. Monteleone (candidato regionali), sen. T. Di Benedetto, A. Spataro (candidato alla Camera dei Deputati), prof. V. Tusa.

La candidatura di Renato Guttuso per il collegio senatoriale di Sciacca (molto ambito perché il più sicuro dopo di quello di Ragusa) ci venne proposta (io ero segretario provinciale del Pci) dalla direzione del partito- come al solito- con una telefonata autorevole.

Alle nostre osservazioni fu risposto che “Guttuso è un grande artista siciliano, di respiro europeo, e che dovremmo essere orgogliosi di poterlo eleggere noi al Senato della Repubblica…”

Insomma, un privilegio che però- diciamo- non era pienamente compreso, apprezzato dai gruppi dirigenti delle sezioni del Pci del collegio e apertamente avversato da alcuni candidati in pectore o che tali si sentivano, dopo la poco edificante esperienza del senatore uscente Vincenzo Gatto.

Anche nel caso di Gatto la notizia ci arrivò tramite una telefonata di Armando Cossutta, membro della segreteria nazionale del Pci, il quale non volle sentire (le nostre) ragioni di gruppo dirigente, giovanissimo, che solo due mesi prima (febbraio 1972) era uscito bene, motivato e determinato, dal confronto- a tratti aspro- avutosi nel congresso provinciale.

Cossutta fu inflessibile mi disse (al telefono): “Questa è la decisione che il Partito ha preso anche per onorare gli impegni assunti a seguito della confluenza nel Pci del Psiup (Partito socialista italiano di unità proletaria, di cui Gatto era vicesegretario nazionale). E tu, voi non potete mettere a rischio l’accordo…” Tornando alla candidatura di Guttuso, ricordo che anche per disciplina di partito (vigeva il “centralismo democratico”) ci mettemmo al lavoro per convincere i bravi compagni delle sezioni del collegio di Sciacca (fino a Gatto rappresentato per lungo tempo e proficuamente da “quel Cipolla”, di cui parla Sciascia) ad accogliere e sostenere la candidatura -come sempre- calata dall’alto.

A parte un gruppo di giovani intellettuali che diedero la loro adesione alla candidatura Guttuso, la parte più consistente del partito e dell’elettorato era di chiaramente contraria o- nel migliore dei casi- titubante e, soprattutto, preoccupata per la tenuta elettorale del partito in un collegio dove l’elemento sociale dominante erano i contadini, i pescatori e le popolazioni terremotate del Belice.

Così, per dare un saggio del clima pre-elettorale, ricordo un aneddoto che capitò nel corso di un’affollata e appassionata assemblea di una sezione del Pci di Sciacca, consultata in ordine alla candidatura nel collegio del grande pittore e compagno Renato Guttuso. Un vecchio compagno, che per tutta la serata aveva fumato nervosamente, si tolse di bocca la pipa di terracotta, s’alzò in piedi e ci interrogò: “Ma, insomma, compagni a Sciacca chi mancanu pittura ca l’amu a ghiri a pigghiari di Roma?” Evidentemente, il compagno aveva scambiato l'artista con l’imbianchino che qui chiamano pittore.

Comunque sia, Guttuso fu eletto senatore. Purtroppo, rarissimamente venne a Sciacca, nel collegio a incontrare i suoi elettori. Non per cattiva volontà, ma perché troppo preso dai suoi impegni artistici. Senza volerlo, si avverarono le preoccupazioni espresse in quelle assemblee. Da qui le lamentale dei giovani saccensi che, andando a trovare Sciascia alla Noce, gli confessarono la loro amarezza per avere sostenuto quella candidatura. (a.s.)

* Dal libro (in corso di stampa) : “Sciascia e Guttuso - Una bella amicizia polemicamente vissuta”- di Agostino Spataro, 2019.

Foto: Archivio Mondadori/Wikimedia

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