• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > Se s’ammazzano fra loro

Se s’ammazzano fra loro

Sette omicidi, due lupare bianche, diciannove arresti della Dda ad Alcamo e un escavatore bruciato a Partinico. Segnali della riorganizzazione militare dei clan di Cosa nostra.

Due fatti di cronaca apparentemente separati fra loro, ma coincidenti per territorio in cui si svolgono e tempi, se focalizzati insieme possono mostrare scenari inediti. Soprattutto quando il territorio di cui si parla è quello del triangolo Punta Raisi, Corleone e Castellammare del Golfo nella Sicilia occidentale - considerato una delle aree a più alta densità mafiosa del Paese - dove da due anni si sta svolgendo una feroce guerra di mafia, terra di confine fra l’area controllata da due latitanti: Mimmo Raccuglia, l’erede del potere dei corleonesi nel palermitano e oggi probabile uomo al vertice della cupola che fu prima di Michele Greco e poi di Riina e “Binnu” Provenzano, e quella dove regna Matteo Messina Denaro di Castelvetrano nel trapanese. Una guerra per un obiettivo preciso: il controllo di Cosa nostra, la riorganizzazione verticistica e anche militare della struttura criminale.

Due fatti, quindi. Partiamo dall’ultimo in termini cronologici. Mattina del 29 settembre. Vengono arrestate dai Carabinieri, su mandato della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Palermo, ben 19 persone per traffico di sostanze stupefacenti (in particolare marijuana e anche, in quantitativi inferiori, cocaina) nell’alcamese. Dopo tre anni di indagini (e precedenti arresti) l’operazione ha sgominato una banda ben radicata, con ramificazioni anche in altre regioni, ma che comunque doveva sottostare a i due boss latitanti. Infatti il mercato dello spaccio di droga non era solo concentrato ad Alcamo, città controllata da Messina Denaro, ma anche a Partinico, dominata da Raccuglia con il braccio armato di ciò che rimane del clan Vitale. Gli arrestati erano, di fatto, manovalanza di affari più grossi, “picciotti” di basso livello, che forse in qualche occasione hanno esagerato dedicandosi anche ad attività estorsive come emerso dalle indagini della Dda.

Il successo degli investigatori ha portato alla luce anche un dato inquietante, in termini sociali, per l’intero territorio: il quaranta per cento della popolazione giovanile compresa fra i 15 e i 23 anni dei due paesi era abituale cliente degli arrestati: droghe leggere (spesso coltivate in loco come dimostrato da decine di sequestri di campi negli ultimi mesi) ma anche cocaina proveniente dal mercato dei quartieri palermitani di Capo e Monte di Pietà. Il tutto in una zona che da quando si è iniziato a parlare di traffico internazionale di stupefacenti in Italia è al centro del sistema criminale. Ad Alcamo Marina è stata scoperta la più grande raffineria di eroina mai sequestrata nel nostro Paese e, a pochi minuti di macchina da Alcamo, a Castellammare del Golfo, per decenni molti pescherecci non trasportavano pesce ma morfina base che una volta raffinata veniva in parte ridistribuita sul mercato nazionale e per il resto finiva, grazie ai “cugini” di New York, sul mercato statunitense.



Quindi è impensabile che la banda di trafficanti di Alcamo agisse senza il consenso dei clan, senza la loro copertura o che gli stessi appartenenti alla banda non rappresentassero, almeno in parte, una parte del bacino di “mobilità” dove rintracciare picciotti per rinfoltire le schiere dei clan decimate dalle ondate di arresti degli ultimi anni. Braccia. Lo dimostra anche che a Partinico fosse stato lasciato agli alcamesi solo il mercato della marijauna mentre quello di cocaina è saldamente nelle mani del clan Vitale. “Picciottelli” che forse hanno forzato la mano nel business contando in un calo di attenzione grazie alla guerra di mafia in atto fra i vertici di Cosa nostra e dopo l’arresto di alcuni suoi capi nei mesi scorsi. Forse scaricati, quindi, da chi dopo sette omicidi e almeno due lupare bianche sta cercando di rimettere in piedi l’ala militare di Cosa nostra per ripristinare l’ordine sul territorio. Forse allora si sta arrivando non a una pax mafiosa, ma a una tregua. Anche perché il clan Lo Piccolo, nonostante gli arresti del boss Salvatore e del figlio, sta reinserendosi nella lotta per la scalata ai vertici di Cosa nostra, come dimostrato dalle ultime notizie di cronaca: la famiglia Lo Piccolo cercava di scalare addirittura il Palermo calcio e stava accaparrandosi l’appalto per la costruzione del nuovo porto di Chioggia. Un’ipotesi, certo, ma molto verosimile. Che trova in qualche modo conferma nella seconda notizia di cronaca.
Nella notte del 28 settembre (poche ore prima della retata contro i trafficanti) un escavatore è stato incendiato nelle campagne proprio fra Partinico e Alcamo. Fin qui la notizia non ha fatto granché impressione. In questa zona, il racket domina ogni tipo di attività e incendi del genere - intimidatori - sono cosa di tutti i giorni. L’allarme è scattato quando si è saputo dove è stato incendiato il mezzo e soprattutto l’identità del proprietario. Si tratta, infatti, del cugino dell’ultimo morto in ordine cronologico della guerra di mafia in corso sul territorio. Il cugino dell’assassinato è Antonino Giambrone, eliminato, a quanto emerso finora, perché aveva mancato di rispetto ai Lo Piccolo. Il proprietario dell’escavatore, che si chiama Antonino come il parente ucciso, è anche figlio di Giuseppe, condannato a 9 anni per associazione mafiosa. A quanto sembra non si tratta di una coda della faida, e neppure di un fatto estorsivo. Si sospetta che a provocare la reazione in questo caso del clan di Raccuglia, sia stato il luogo dove Giambrone era andato a lavorare. Infatti, Antonino (il figlio di Giuseppe) stava ristrutturando un “baglio” in Contrada Bosco Falconeria, nei pressi di uno dei probabili rifugi del boss latitante, danneggiando quindi il non troppo paziente allievo di Giovanni Brusca, Raccuglia, che ha mandato al giovanotto un chiaro messaggio.

Una questione di sicurezza, quindi. Con il boss che si trova a gestire una latitanza complicata: anche se facilitata da un territorio “accogliente”, sente la pressione della polizia che lo sta cercando e soprattutto deve stare attento alla guerra di mafia in cui è coinvolto e alla gestione della pesante eredità di comando lasciatagli da “Binnu” dopo l’arresto. Una guerra in cui, però, le forze dell’ordine sembrano non intervenire. Assistono. Inutile intromettersi? «Se si scannano fra loro meno lavoro per noi». O magari siamo solo davanti agli effetti della cronica carenza di mezzi, organizzazione e coordinamento che colpisce le nostre frammentate forze dell’ordine (Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di finanza) che la notte, nonostante la presenza di centinaia di uomini in divisa, riescono a mettere solo due macchine (nel totale) sul territorio di 14 comuni. Nel frattempo, aspettando che si rompa la fragilissima tregua fra i clan palermitani e quelli trapanesi, nel territorio stanno per piovere i cosiddetti “laureati dell’Ucciardone”, picciotti arrestati nei decenni passati e ora a fine pena. Cercheranno di riavere il loro ruolo rivendicando il proprio passato. Il primo di questi si “laurea” a metà ottobre tornando in circolazione a Partinico. Ed è uno dei “Fardazza”, il soprannome ingiurioso riservato al temibile clan Vitale. 

da left 40, 3 ottobre 2008 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares