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Sbatti il mostro in bacheca

L'assassinio di Yara Gambirasio e il delitto di Motta Visconti: i media offrono racconti leggibili di un orrore che reclama la propria illegibilità.

C'è una curiosa coincidenza che ha portato al quasi contemporaneo arresto del presunto assassino di Yara Gambirasio e al diffondersi della notizia di un efferrato omicidio commesso a Motta Visconti, nel Milanese, dove un uomo ha ucciso la moglie e i figli piccoli.

Si tratta di eventi profondamente diversi, sia per le dinamiche, sia per il modo in cui gli organi di stampa hanno potuto trattarne e dunque costruirne la storia: eppure entrambi gli episodi sembrano fare leva sugli stessi meccanismi di ricezione da parte del pubblico.

Il caso Gambirasio è un giallo che ha occupato le pagine dei giornali per 4 anni, prima in maniera morbosa, poi sporadicamente, quando giungeva la notizia di qualche svolta nelle indagini. L'omicidio che si è consumato a Motta Visconti lo scorso sabato, invece, è stato risolto subito, con una soluzione sconvolgente: l'assassino è marito e padre delle vittime.

Ma come è possibile raccontare l'orrore, decifrare il non senso, offrire ai lettori e agli spettatori una storia laddove tutte le categorie e le coordinate del comprendere umano, del senso comune, vengono sovvertite, offese, violate?

Come può la stampa rendere accessibile tanta enormità?

La risposta è un'operazione narrativa, un linguaggio che lavora con la dinamica degli eventi attraverso processi analoghi a quelli che insegnano ai corsi di scrittura creativa: dettagli, climax, sviluppo temporale. Il racconto dell'orrore è il gesto che dispiega, dettaglia e rende accessibile la violenza: prende la vita e le attribuisce un meccanismo di coerenza a tutti i costi, ricomprende l'assurdo dell'omicidio in un orizzonte di senso.

In un caso come quello di Motta Visconti, gli organi di informazione suscitano nel lettore meccanismi di immedesimazione. Il lettore partecipa della storia che legge attraverso una prossimità emotiva che può esistere solo se la storia gli è vicina. Ecco perché si “cercano” sempre gli italiani morti in catastrofi avvenute in paesi lontani: altrimenti l'evento è distante, “non poteva succedere a me”, e quindi non ha alcuna presa sulla mia sensibilità.

Il racconto della stampa è quello di un uomo normale che improvvisamente e praticamente senza movente commette una strage. La banalità di questo male è conservata dall'assurdità del racconto e contemporaneamente respinta da un lavorìo incessante sulla trama, sui particolari, sui nessi causali, un'operazione di scrittura che occulta l'unica domanda che avrebbe senso e che d'altronde è costitutivamente destinata a rimanere inevasa: perché?

Nei thriller e nei romanzi gialli la domanda perché? deve trovare una risposta, pur attraverso un generico e inconsistente appello alla “follia”. Il fatto è che all'accadere di un simile male nella realtà, la razionalità non sa dare risposte: c'è un surplus di non senso che oltrepassa qualunque discorso o storia si possa raccontare su di esso. La stampa deve aggirare questo ostacolo, deve costruire il profilo di un assassino e di un omicidio, trasformare il dis-umano in mostro. Il dis-umano non è neanche detestabile, oltrepassa le parole che possiamo spendere sul suo agire, è un male al di là del bene e del male (non è moralmente giustificabile in quanto amorale, è solo concettualmente inafferrabile).

Il carabiniere che racconta l'omicidio di Motta Visconti si serve del presente storico: l'intrigo sembra costruito con maestria, le pause soppesate, le parole scelte con cura, in bilico tra gergo tecnico e fruibilità giornalistica. Verbi d'azione, tutti al presente, e dettagli scabrosi, ma solo nel limite tracciato dalla sensibilità comune. Il particolare sul fatto che Carlo Lissi e sua moglie abbiano avuto un rapporto sessuale prima che lui la uccidesse viene salvaguardato, ma l'omicidio dei bambini viene improvvisamente sfumato, accelerato: non c'è racconto che possa smussare l'inascoltabilità di tanto orrore. Poi arriva il dettaglio più scandaloso: l'uomo si è lavato ed è andato a vedere la partita dell'Italia. Come altri 13 milioni di connazionali.

L'invito all'immedesimazione (“poteva essere il mio vicino di casa”) che la stampa opera, comporta reazioni indotte di rabbia e dolore: una sorta di coazione allo sdegno, alla risposta forcaiola, che è costitutiva dello stesso invito a partecipare emotivamente a qualcosa di impartecipabile. Tali reazioni mascherano forse una reazione di rifiuto, l'incapacità, semplicemente di capire ciò di cui si sta parlando.

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Pagina nata su Facebook poco dopo la diffusione del nome di Massimo Bossetti come presunto assassino di Yara Gambirasio

D'altronde l'intreccio è sempre lo stesso ed è insufficiente: un uomo normale che perde il senno. Il movente (“era innamorato di un'altra” nel caso di Motta Visconti) non offre spiegazioni. È la narratività di cui la notizia si intride, per il fatto stesso di poter essere leggibile, che costringe i lettori a problematizzare qualcosa che al fondo è inconcettualizzabile, e che dunque induce reazioni emotive che pretendono di rispecchiare il senso comune.

I commenti alla foto profilo del presunto assassino di Yara Gambirasio

L'irresolubile domanda “perché?” è lasciata fuori dallo spettacolo dello sgomento, poiché richiederebbe una comprensione che non si può avere. Il lavoro di immedesimazione che la stampa ci spinge a compiere per poter maneggiare l'orrore dell'omicidio nel caso di Motta Visconti è spinto verso la sua conseguenza iperbolica: subito dopo aver commesso il delitto l'uomo va a vedere la partita dell'Italia, come tutti. Non solo sarebbe potuto essere il mio vicino di casa: sarei potuto essere io stesso.

Da un punto di vista antropologico è così, la strage è tra le possibilità dell'umano. Ma in realtà è l'ipotesi stessa ad essere insensata, così come tutti gli altri meccanismi di rilettura messi in atto “a posteriori” su un evento che grida la sua illegibilità. Centinaia di lettori, spinti dall'evento pruriginoso e dalla curiosità causata proprio dalla sua inafferrabilità, spiano le pagine Facebook dei personaggi protagonisti e scoprono assurde ironie della sorte, vanno a cercare i volti, le interazioni, i gesti, vanno a cercare una risposta, una spiegazione, a toccare con mano la normalità dell'abnorme, ciò che la rende l'irresistibile insensatezza che è.

La lettura retrospettiva esaspera l'assurdo ottenendo per converso un'illusione di senso. Il presunto assassino di Yara Gambirasio condivideva questo:

La moglie di Carlo Lissi pochi giorni prima di essere uccisa scriveva uno status su Facebook che alla luce degli eventi risulterà incredibilmente sensato. La distorsione prospettica innescata dalla fruizione dell'evento rovescia la realtà nella sua cronaca, sembra che sia la vittima stessa ad essersi scritta una frase perfetta per essere condivisa dopo la sua morte.

La stampa costruisce il mostro, intessendo la sua storia di dettagli, rovesciamenti, colpi di scena: l'amore diventa furia cieca, la normalità aberrazione. Disponibile per una serie infinita di usi, il mostro è un prodotto disponibile ad essere sbattuto in bacheca. Voyeurismo, coazione alla risposta emotiva, esigenza di partecipare a un evento che riguarda tutta la comunità. I media de-banalizzano il male per rendercelo più vicino, ma quel male rimane lontano, anche se è stato commesso dal nostro vicino di casa: rimane lontano perché esorbita dal nostro orizzonte di senso, anche se è un male umano, troppo umano. Eppure quell'orrore esiste. Veniamo invitati ad affrontarlo secondo i canoni estetici del contemporaneo: la risposta emotiva indotta supplisce l'incapacità umana di fissare e comprendere il proprio abisso. Questo spettacolo raccapricciante che scuote la nostra sensibilità non è uno spettacolo, non si offre ai nostri occhi né al nostro linguaggio.

Soltanto tacerne, forse, stavolta, potrebbe essere un modo per darne sensata testimonianza.

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Il lancio della notizia de Ilgiornale.it

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