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Saunders. Chi ci salverà dal rumore del mondo?

(trad. Di Lucio Carbonelli)

Una volta, dopo aver letto Pastoralia, scrissi ad alcuni amici dicendo che se mai fossi stato uno scrittore, mi sarebbe piaciuto scrivere racconti come quelli. Raccontare la realtà nella quale viviamo, descriverla, come la descrive George Saunders, è un piacere per chiunque cerchi nella letteratura una visione del mondo. Ossessionato dai luoghi che Auge non avrebbe problemi a definire non luoghi (termine abusato, quanto non sempre azzeccato), spesso parco giochi, Saunders continua a ritenerli fondamentali per spiegare al mondo la realtà che ci circonda.

 
Anche nel passaggio dal racconto al saggio (articoli su riviste soprattutto), col suo ultimo “Il megafono spento. Cronache da un mondo troppo rumoroso” (minimum fax, 2009, 222 p., 11.90€) lo scrittore americano torna spesso a rintracciare dei luoghi, come metafore perfette.
 
Ecco quello che ci ha raccontato qualche settimana fa:
 
 
Come è stato passare dalla narrativa al saggio?
 
È una cosa che mi piace. In un certo senso ti senti più libero quando ti chiedono di scrivere una cosa riguardo il mondo reale. O, per metterla in altro modo: con la saggistica non devi preoccuparti della trama perché c’è già, tu devi solo preoccuparti di scrivere bene. Con la narrativa invece prima devi trovare una trama, poi la devi scrivere bene, ma anche se scrivi bene questo non significa che hai una buona trama. Insomma, ci devi dedicare un sacco di tempo.
 
 
In questo libro di saggi, alcuni argomenti che tratti nei tuoi vecchi libri tornano. Veramente viviamo in un parcogiochi? Leggendo l’articolo su Dubai sembra di sì.
 
Io credo che il desiderio di creare ambienti esclusivi è una cosa che viene da molto lontano, in un certo senso è un desiderio che ci appartiene profondamente. In effetti riflette una parte molto vera della nostra psicologia: il desiderio di perfezione. Perciò il tentativo di creare questi parchi a tema è una cosa che sta a metà tra bellezza e arte: in pratica si tenta di creare una versione mitica di qualcosa che, in realtà, è difettosa e imperfetta. Ovviamente c’è anche qualcosa di pericoloso e destabilizzante in questo tipo di comportamento: si arriva a una specie di fascismo spirituale che vuole che tutto sia chiaro e univoco, e questo modo di pensare può spingere a una pericolosa idea di “igiene”. Tuttavia io amo i parchi a tema, e li amerò sempre.
 
 
Cosa pensi dei primi mesi di Obama. Il suo modo di affrontare la crisi. La sua decisione di incrementare il numero dei soldati in Afghanistan...
 
Devo ammettere che lo amo. Penso che governare sia una cosa molto difficile, e oltre Obama non mi viene in mente nessun altro politico americano di cui possa fidarmi per quanto riguarda le decisioni difficili. L’escalation militare in Afghanistan mi preoccupa un po’, e mi preoccupa anche l’ascesa dei Talebani. Mi preoccupa la gran quantità di soldi che sta spendendo il nostro governo, e mi preoccupa anche ciò verso cui noi ci stiamo dirigendo, una specie di scenario alla “Mad Max” dove tutto è al collasso. In definitiva sono preoccupato per tutto, sto solo cercando di imparare a godermela.
 
Una delle tue storie è sull’immigrazione, un grosso problema per gli Usa. Non so se sai che anche in Italia abbiamo gli stessi problemi, dato che siamo la porta dall’Africa all’Europa. C’è un pezzo di mar Mediterraneo che è praticamente un cimitero a causa delle migliaia di persone che sono morte durante i viaggi. Perché credi che questa paura sia così difficile da rimuovere? Dici una bella frase, ovvero che se i messicani fossero ricchi verrebbero negli Stati Uniti solo per le vacanze.
 
Sì, benché adesso le cose si stiano facendo più complicate, dato che c’è stata un’impennata di violenza da parte dei cartelli della droga presenti laggiù. Sinceramente mi piace essere uno scrittore, perché non sei tenuto ad avere tutte le risposte. Come diceva Checov: l’arte non deve risolvere i problemi, deve solo formularli correttamente. Perciò penso che il rompersi le palle faccia parte del lavoro di un artista: devi fornire quanti più dati possibile, dai più disparati punti di vista possibile, sapendo che questa cosa – l’escalation di complessità, cioè – è in sé una cosa davvero preziosa, perché ci avvicina alla verità e, forse, ci rende anche esponenzialmente più umili quando agiamo.
 
 
Nel tuo primo saggio parli del potere dei media. Per i giornali, e l’informazione in generale, non è un bel periodo. Quale credi sarà il futuro?
 
A giudicare da come vanno le cose qui, in futuro non dovremo far altro che scegliere tra “Progressista” e “Conservatore” e le notizie ci saranno impiantate direttamente nel cervello, e queste notizie riguarderanno storie che non faranno altro che rinforzare le nostre idee e opinioni già esistenti e ci saranno consegnate da modelle computerizzate con costumi da bagno completamente tappezzati dai logo di svariate marche.
 
 
Cosa credi dell’informazione online e del Citizen Journalism?
 
Completamente a favore.
 
Il sogno americano. Abbiamo visto scorrere le immagini delle tendopoli americane. L’American Dream esiste ancora?
 
Buffo che tu mi faccia questa domanda, sono appena tornato da una settimana passata in uno di quei campi. Penso che il Sogno Americano esista ancora, sì, anche se sinceramente non so proprio dire cosa sia. Pollo per tutti? O magari una casa? Penso solo che oggigiorno sia più dura per tutti. Con l’economia che ci ritroviamo oggi, tutti quei tipi che ieri stavano saltando la staccionata adesso sono caduti a terra, in quel cortile chiamato povertà.
 
 
Dici che gli Usa non sanno se stare dalla parte di Huck o di Tom. Selvaggio e ignorante (Huck) o il paese che vogliono essere accettati dall’Europa (Tom). A quale siete più vicini adesso?
 
Penso che in America ci sia sempre stata, e sempre ci sarà, un’oscillazione tra queste due visioni del mondo, ma per adesso Obama ci ha riportati dalla parte di Huck. Adesso non ci resta che aspettare che il pendolo oscilli verso l’altra parte, quando verranno eletti la Palin e Limbaugh, e tutti noi dovremo sottoporci alla marchiatura a fuoco.
 
Trovo che nei tuoi articoli ci siano un sacco di punti in comune con Thomas Pynchon. Paranoia, media, tecnologia. Ti piace Pynchon, e qual è il tuo libro preferito?
 
Mi piacciono molto i suoi libri. Credo che il mio preferito, per ragioni che non so spiegare, sia Vineland. È molto bello il modo in cui dà forma a un vero ambiente americano: tutte quelle sottosezioni e quei cavalcavia, e poi le foreste di sequoie e quei pazzi sognatori falliti.
 
Se dovessi suggerire un paio di scrittori ai lettori, chi suggeriresti?
 
Tra i nuovi narratori americani consiglierei Rivka Galchen (“Atmospheric Disturbances”), e Ben Marcus (L’età del fil di ferro e dello spago, edito in Italia da Alet ndr).
 
Quale credi sia “Le avventure di Huckleberry Finn” degli ultimi anni? Un libro che ha avuto la stessa importanza per gli Usa. Se esiste.
 
Be’, parlando di influenza sui giovani scrittori, direi che Infinite Jest di D.F. Wallace sia un libro piuttosto importante. Ho sentito parlare anche molto di Rumore Bianco di Don De Lillo come di una grossa influenza.
 
A che stai lavorando ultimamente?
 
Sto scrivendo un articolo sulla tendopoli di Fresno, in California.
 
Ti piace la musica? Che tipo di musica ascolti e quanto è importante per le tue storie?
 
Non è una cosa propriamente importante, ma quando ero più giovane suonavo e credo che qualunque tipo di impianto estetico narrativo mi derivi dall’ascolto di qualche milione di album a cui mi sono dedicato da ragazzino negli anni ’70. Attualmente il mio preferito è Elliott Smith, un grande autore di canzoni e chitarrista di Portland, nell’Oregon, morto tragicamente qualche anno fa… veramente unico, molto intenso. Mi piace anche il compositore John Adams, in particolar modo la bella composizione che ha scritto sull’11 settembre “On the Transmigration of Soul”.
 
Chi credi possa difenderci dal “Rumore del mondo” (il sottotitolo italiano del libro è “Cronache da un mondo troppo rumoroso”)?
 
Basta liberarsi di tutte le stronzate. O, per essere più precisi: rendiamoci conto che siamo noi a scegliere i nostri input, e cerchiamo di capire che tipo di influenza hanno i media sulle nostre menti. Per quanto mi riguarda, troppa comunicazione mediatica equivale ad ansia e falsità, e al tentativo servile di compiacere qualcuno o qualcosa di esterno a me che quando ero un ragazzino poteva essere “Dio” o la “colpa”, ma che oggi sembra scaturire da una sorta di individuo perfetto che mette insieme magazine di moda o telegiornali spettacolo o il New York Times ed è sempre lì a giudicarmi subdolamente. 

 

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