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Salvini, il ministro e un pollo

In qualche modo la mia opinione ha trovato conforto nel “mea culpa” di Alessandro Gilioli, commentatore de l’Espresso, che si era in un primo tempo dichiarato contrario al no del Presidente. Ma che poi si è ricreduto: «si è rivelato sbagliato il mio giudizio sull'”errore politico” compiuto da Mattarella domenica sera - scrive - Ha rischiato molto e forse esagerato un po' (ad esempio, incaricando un uomo della Troika privo di ogni consenso cinque minuti dopo lo scontro su Savona) ma con il suo bluff ha vinto. Non interesserà a molti, ma interessa a me correggermi quando a correggermi sono i fatti». Chapeau.

Ma ormai questa è acqua passata e quindi è più interessante occuparsi della partita a scacchi giocata, molto abilmente, da Matteo Salvini.

Una partita che l’ha portato nella classica situazione che in inglese è definita “win-win”. Espressione che indica una trattativa in cui entrambi i soggetti escono "vincitori", ma che in questo caso dice che lui, Salvini, sarebbe uscito vincitore comunque si fosse evoluta la situazione.

Avrebbe vinto se Mattarella avesse accettato il diktat di Savona all’Economia perché avrebbe imposto un “suo” uomo all’odiato sistema, ma avrebbe vinto lo stesso se, dopo il rifiuto di Mattarella, si fosse aperta la via del voto in cui avrebbe incassato i dividendi della sua azione, che i sondaggi definivano (e definiscono sempre più) come numericamente importanti.

Anzi, numerosi commentatori, me compreso, hanno seriamente sospettato che questo fosse l'intento reale del leader leghista. Addirittura prioritario rispetto al governare subito.

Dopo i giorni che hanno visto Mattarella rispondere giocando la carta “tecnica” di Cottarelli, in pratica andando a vedere la mano di Salvini, si è capito che in fondo il leader della Lega aveva tentato un bluff. E così le cose si sono ricomposte e il governo è finalmente partito con Paolo Savona dirottato su un ministero minore e senza portafoglio.

Ma anche in questa terza, conclusiva, via d’uscita Salvini ha dimostrato che la sua mossa poteva comportare addirittura un triplo “win”: ha vinto lo stesso pur dovendo recedere dal suo diktat su Savona o al nuovo ricorso alle urne.

Ne dà atto il titolone in prima pagina de Il Fatto Quotidiano, da lungo tempo stampa amica dei Cinquestelle, che apertamente ammette: «La Lega cede a Mattarella e Di Maio».

La Lega cede a un Presidente che l’ha affrontata, senza paura di beccarsi pure le minacce di impeachment, ma soprattutto cede a Di Maio, che sicuramente non aveva cartucce da sparare per minacciare Salvini.

Quindi il suo cedimento va interpretato in buona misura come una sua gentile concessione allo smarrito e impotente alleato (che ha il doppio dei suoi voti).

È lecito pensare che non avendo altri colpi in canna Di Maio lo abbia pregato, implorato, scongiurato di non mandare tutto a monte, rimandando gli italiani alle urne, perché non solo il M5S sarebbe finito nella umiliante posizione di aver vinto le elezioni rimanendo con un pugno di mosche in mano - dopo aver festeggiato coi botti la conquista del Palazzo d'Inverno («lo Stato siamo noi!» nientemeno) - ma anche perché la sua stessa testa di sbarbatello leader dei rivoltosi a Cinquestelle avrebbe corso seri rischi all’interno di un Movimento già ampiamente in fibrillazione e in serio, seppur non travolgente, calo di consensi allo scoccare dei novanta giorni tentennanti.

Balza agli occhi: un Salvini che benevolmente “cede” alle preghiere dell’amico-alleato-avversario, esce dalla tenzone con l’immagine del trionfatore circonfuso da un abbagliante alone di grandeur. Forse anche più di quanto testimoniato dal sondaggio SWG di qualche giorno fa: la Lega al 27,5 insidia ormai da molto vicino il 29,5 (in calo) del M5S con una spettacolare rimonta, rispetto al voto del 4 marzo di 10 punti secchi.

Ora però sembra non essere più percorribile, per lui, la mossa di mettere l’Europa con le spalle al muro per costringerla ad allentare i vincoli, a cui sembrava alludere una dichiarazione attribuita a Paolo Savona da una confidenza di Giulio Tremonti. Mossa su cui la coalizione di governo avrebbe contato per finanziare (con un deciso aumento del già spaventoso debito pubblico) le insostenibili promesse elettorali. Il condizionale è d'obbligo, ma è noto che le coperture non sono mai state indicate.

E senza aver la forza (del tutto ipotetica) di imporre alcunché a Bruxelles sembra che il nuovo piano B sia quello, sostenuto non a caso dal nuovo ministro dell’Economia Giovanni Tria, storico consigliere di Renato Brunetta (il che la dice lunga sul collocamento politico del ministro più importante del nuovo governo): mettere fra parentesi l’uscita dall’euro ed incrementare invece le entrate, ridimensionando per quanto possibile le ambiziose promesse elettorali dei due partiti vincenti.

Di fatto «ha già frenato sulla riforma delle pensioni - scrive Repubblica - è sembrato essere favorevole ad un rafforzamento del reddito di inclusione», ma soprattutto «si è speso per la flat tax e non ha escluso un aumento dell'Iva».

L’idea che la flat tax possa essere finanziata con l’aumento dell’Iva non è una maligna insinuazione giornalistica, ma il contenuto più significativo dell’intervento del neoministro Tria all’Università di Roma Tor Vergata a metà maggio, riportato sul sito Formiche.net

In pratica l’eventuale aumento dell'IVA - previsto dalle clausole di salvaguardia - porterebbe nelle casse dello Stato, in assenza di interventi correttivi, circa 30 miliardi. Non sufficienti nemmeno a coprire il mancato gettito di circa 58 miliardi che l’introduzione della flat tax comporterebbe. Sarebbe necessario, come sperano i sostenitori del progetto, che venissero recuperati anche i circa 35 miliardi di evasione stimati dal ministero dell’Economia e Finanze.

Ma al di là dei calcoli, su cui nessuno può mettere la mano sul fuoco, resta un problema etico grosso come una casa (soprattutto per il M5S): si tratterebbe infatti di un trasferimento di imposizione fiscale dalla tassazione diretta (pagare le tasse in percentuale sui guadagni e secondo lo schema proporzionalmente progressivo previsto in Costituzione) alla tassazione indiretta (le tasse si pagano sui consumi: paghi di più per il solo fatto di consumare, indipendentemente dai tuoi guadagni). Proprio come diceva Tria a Tor Vergata: «ritengo che in Italia si debba riequilibrare il peso relativo delle imposte dirette e di quelle indirette spostando gettito dalle prime alle seconde».

In sintesi non solo si introdurrebbe una tassazione non proporzionale, non solo i più abbienti si vedrebbero diminuire drasticamente le tasse, ma questo generoso taglio verrebbe loro pagato (anche) dai meno abbienti - che dalla flat tax non avrebbero alcun beneficio - attraverso l’aumento del costo dei beni di consumo.

Ancora meno soldi in tasca ai più poveri e molti più soldi in tasca ai ricchi.

Non è lecito criticare scelte economiche non ancora avvenute, ma è lecito ipotizzare che se questa sarà la strada “del cambiamento” che il nuovo governo deciderà di percorrere, sarà l’esatto opposto di quanto gran parte degli elettori del Movimento di Grillo avrebbe voluto, essendo meno favoriti dall'introduzione della flat tax e più esposti ai nuovi aumenti dell'IVA rispetto allo storico bacino elettorale della Lega.

Se questo sarà davvero l’effetto imposto dal partito del 17% a quello del 33%, Luigi Di Maio avrà fatto, di nuovo, la parte del pollo da spennare e rosolare a fuoco lento. La sua leadership sul Movimento potrebbe essere messa a dura prova e, con lui, gli equilibri interni al nuovo governo.

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