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Sacchetti di plastica a pagamento e strategie per non pensare ai veri rincari in arrivo

Non si parla d’altro da giorni: dal primo gennaio 2018, saremo costretti a utilizzare solo i sacchetti di materiale biocompostabile ogni qualvolta ci recheremo al supermercato ad acquistare certi generi alimentari, ma anche presso altri tipi di esercizi commerciali, come ad esempio le farmacie. Ce lo chiede l’Europa.

 

Infatti, una direttiva risalente al 2015, impone che – per abbattere il volume di sacchetti di plastica che è divenuto insostenibile per l'ambiente– i clienti dei supermercati utilizzino detti sacchetti, realizzati in materiale biocompatibile.

Però, a ben guardare, la direttiva europea non parla di sacchetti a pagamento.

Ecco cosa recita un passo di questa direttiva:"Gli stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron («borse di plastica in materiale ultraleggero») fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi”.

Nella Legge per il Mezzogiorno  però, in cui è stata inserita questa nuova gabella attraverso un emendamento del PD, ecco apparire la norma che prevede l'obbligo delle buste a pagamento. Si consideri anche che parliamo di un volume davvero importante di sacchetti, valutato intorno alle 25.000 tonnellate l'anno, calcolo che cozza con la volontà di sostenere l'ambiente, per quanto detti sacchetti possano essere biodegradabili.

Strano però, che solo Italia e Francia abbiano deciso di far pagare questi sacchetti. Nel resto d'Europa è stata recepita la direttiva tale e quale, senza aggravi di spesa per i consumatori. Difficile a questo punto non arzigogolare con la mente e non cercare motivazioni che possano riportare a qualche vantaggio economico per qualcuno.

Inoltre, si badi bene, questi sacchetti non sono del tutto biodegradabili: lo sono solo al 40%.

Ecco cosa recita la normativa appena messa in atto: "I sacchetti devono essere prodotti con materie prime rinnovabili in proporzione crescente negli anni. Si parte dal 40% previsto per il 2018 e si passa poi al 50% nel 2020, per arrivare al 2021 con sacchetti composti al 60% da materie prime rinnovabili. Devono anche essere idonei a conservare gli alimenti, proprio perché spesso sono a contatto diretto con il cibo."

Cozza paurosamente con un vero progetto atto a diminuire l'impatto ambientale dei sacchetti di plastica.

Immediate le reazioni soprattutto sui social, eterno contenitore di tuttologi, costituzionalisti, esperti di tutto ma specialmente, perditempo da chiacchiere da bar.

I supermercati stanno facendo pagare i sacchetti! Maledetti!!” Ulula un tizio assatanato su Facebook, senza aver capito che non si tratta di un aumento deciso dalle catene di supermercati. Tipico. Gli fa rimando un altro: “E’ tutto un magna magna!” e ancora: “Finalmente! Così so combatterà il problema dell’evasione fiscale, che in Italia pesa 200 miliardi”! Tra le castronerie più divertenti, devo dire che quest’ultima le ha battute tutte.

Ordunque, ecco la storia: paghiamo dal primo gennaio di quest’anno, uno o due o tre centesimi a bustina, quelle trasparenti che devono contenere i generi alimentari come patate, cipolle ma anche frutta e altri generi alimentari.

Non basta: anche i sacchetti fornitici nelle farmacie e in tutti gli esercizi commerciali presso i quali acqustiamo beni che vengono messi dentro sacchetti di plastica. 

Il prezzo a bustina? Alcuni mormorano persino fino a sette centesimi a sacchetto.

Riflessione: considerando che la normativa appena entrata in vigore, e contenuta nella recente Legge 123 del 2017, recante “disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno” che riporta la cosa come una “misura di contrasto all’impatto ambientale delle buste di plastica”, dovrebbero allora spiegarci perché – proprio a tutela dell’ambiente – non possiamo recarci al supermercato con le nostre belle buste magari di stoffa o di iuta, personali, ecologiche e riutilizzabili molte volte.

No, in prima battuta hanno stabilito che le buste che si trovano a pagamento nei super sono biodegradabili, e che possono essere riutilizzate per la differenziata. Dicono. Perché necessario ricordare che la raccolta differenziata, nel nostro paese, è ancora a macchia di leopardo e quindi, questi benedetti sacchetti che ora pagheremo, e incideranno qualche decina di euro l’anno sul nostro portafogli, nella migliore delle ipotesi andranno ad accumularsi nei secchi domestici della spazzatura prima, e nei cassonetti dell’indifferenziata poi, creando ulteriori disagi alla raccolta delle immondizie che, ad esempio nella capitale, sta per far impallidire i tempi peggiori della monnezza napoletana, lasciata a tonnellate ai margini delle strade.

Basta fare una passeggiata per le strade di Roma, per avere conferma.

Dopo qualche giorno di bagarre, tra utenti dei social in piena rivolta e politici che tentano di mettere pezze a colori sull'ennesima storiaccia all'italiana, è intervenuto pure il Ministero della Sanità, a fare maggior confusione: i sacchetti possiamo portarceli da casa, ma devono essere identici a quelli forniti dai negozianti, e non possono essere riutilizzati.

Quindi cosa dovremmo fare? Acquistare i sacchetti - quindi li paghiamo comunque - e quando ci rechiamo presso un esercizio commerciale che facciamo, dichiariamo all'entrata - manco fosse la frontiera di una nazione straniera - i sacchetti? E poi? Chi verifica cosa? Caos. Tanto.

A condire il tutto, come se ve ne fosse necessità, ecco che quotidiani come Il Giornale, se ne escono con la vicenda della titolare di un’azienda che produce detti sacchetti – la Novamont – è di proprietà di una donna, tale Catia Bastioli, un’imprenditrice effettivamente vicina a Matteo Renzi e che, tra le altre cose, è anche presidente di Terna, dal Maggio del 2014. Terna, per chi non lo sapesse, si occupa di fornitura di energia elettrica e gas. Tra le maggiori a distribuire questi servizi in Italia e in Europa.

Ovviamente, apriti cielo: persino io, nelle prime ore, ho fatto qualche errore di valutazione della situazione. Poi, ovviamente, ho studiato meglio la cosa, per comprendere che, al di là degli eventuali guadagni che la Novamont metterà in bilancio anche grazie al pagamento delle bustine di plastiche semi-biodegradabili nei supermercati, che è già stato valutato in circa 400 milioni di euro l'anno, è in atto un'ennesima strategia della distrazione.

Se è pur vero che, dati alla mano, una famiglia media italiana andrà a pagare – solo di bustine ai supermercati – qualche decina di euro l’anno, l’attenzione generale doveva invece ricadere sui rincari di quasi ogni servizio: luce, gas, autostrade, ma anche alimenti confezionati, benzina, tasse tariffe telefoniche.

Su quest’ultimo punto anzi, ci tengo a far notare una cosa. Il governo ha varato una normativa che impone ai gestori telefonici di tornare alla fatturazione mensile. Ricorderete tutti come, per un paio di anni, siamo stati costretti a pagare – in pratica – 13 mensilità invece di 12, col trucchetto delle bollette o delle tariffe a 28 giorni, che hanno fatto guadagnare un bel miliardo di euro l’anno ai gestori telefonici.

Ebbene: ora dovranno riadeguarsi, per legge. Peccato che, a quanto pare, se da un lato si riadegueranno alla fatturazione mensile, dall’altro stanno già aumentando le tariffe ai clienti, guarda caso di circa l’8,6%, che è esattamente il plus guadagno incamerato grazie alla fatturazione a 28 giorni.

Insomma: che ce lo chieda l’Europa, o che lo chieda la politica nazionale, resta il fatto che la pressione fiscale e il calo della capacità economica ai danni delle famiglie italiane, sembra essere l’unico progetto socio economico e politico nazionale. Roba da terzo mondo. Anzi no: roba da Italia.

E' bene anche notare come gli italiani reagiscano a temi come questo montando una vera guerra mediatica, per poi tralasciare tematiche davvero serie, come ad esempio il fatto che ogni anno - solo nel nostro paese - vengano letteralmente bruciati 95 miliardi di euro in giochi d'azzardo, o il fatto di esser costretti a subire la pressione fiscale più alta d'europa o aver dovuto dire addio al sistema di Welfare.

Insomma: non si riesce mai a puntare il dito sulle effettive disgrazie che ci assalgono.

Per dovere di informazione, ecco di seguito i criteri che devono presentare le buste di plastica in questione, secondo la normativa nazionale vigente:

 Spessore del materiale (della singola parete): <15 micron

– Certificate biodegradabili e compostabili (UNI EN 13432:2002) da organismi accreditati e riconoscibili da marchi di riferimento

– Contenuto minimo materia prima rinnovabile, certificato EN 16640:2017 da organismi accreditati: almeno il 40% a partire dal 1.1.2018

(50% a partire dal 1.1.2020; 60% a partire dal 1.1.2021)

– Conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti DM 21/3/1973 [regolamenti (UE) 10/2011, (CE) 1935/04 e (CE) 2023/06]

– Non possono essere cedute gratuitamente e il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto

– Devono essere apposti gli elementi identificativi del produttore nonché diciture idonee ad attestare il possesso dei requisiti di legge (ad esempio “borsa per alimenti sfusi, biodegradabile e compostabile UNI EN 13432:2002, con contenuto minimo di materia prima rinnovabile del… %, prodotta da…”

Borse per il trasporto: borse utilizzate ad esempio alla cassa. Sono biodegradabili e compostabili. Queste le caratteristiche che devono avere:

– Nessun limite di spessore del materiale della singola parete

– Certificate biodegradabili e compostabili (UNI EN 13432:2002) da organismi accreditati e riconoscibili da marchi di riferimento

Questo articolo è stato pubblicato qui

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