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Riforma agraria è democrazia

Le quotazioni dei grani sono precipitate contemporaneamente al crollo delle Borse. E mentre la crisi alimentare si lega sempre di più a quella finanziaria, l’Ecuador e la Cina avviano un processo di redistribuzione delle terre senza precedenti nella storia 

 
La crisi dei prezzi dei cereali, tuttora irrisolta, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la questione agroalimentare. Non solo dal punto di vista del mercato, governato in gran parte dalla Borsa di Chicago e poi da quelle agricole regionali, ma soprattutto per il problema della sicurezza alimentare, dell’accesso al cibo e del modello di sviluppo applicato alle coltivazioni e alla distribuzione dei prodotti agricoli. E la crisi alimentare e sociale si sta progressivamente aggravando con l’attuale crisi finanziaria. Con un’accelerazione devastante. La Banca mondiale prevede che gli elevati prezzi del cibo e del carburante faranno aumentare il numero di malnutriti nel mondo di 44 milioni quest’anno, portandolo a 967 milioni. Il direttore esecutivo del World food programme, Josette Sheeran, ha ammesso che persino i cittadini di Paesi ricchi sono stati colpiti dagli elevati prezzi del cibo e dalla crisi finanziaria. «Ma per chi vive con meno di un dollaro al giorno, è una questione di vita o di morte», ha aggiunto. L’economista Jeffrey Sachs ha espresso in occasione della giornata mondiale dell’alimentazione il suo pessimismo sul futuro, considerata l’assenza di progressi locali e internazionali anche quando la crisi alimentare ha riempito i titoli dei giornali all’inizio di quest’anno. «Ci sono motivi per ritenere che in base all’attuale tendenza andremo sempre peggio, a causa dell’aumento della popolazione - ha dichiarato Sachs - degli scombussolamenti climatici, del maggiore degrado ambientale e dell’incapacità dei Paesi poveri di rispondere adeguatamente». Le quotazioni dei grani sono precipitate contemporaneamente al crollo delle Borse. A Chicago i futures sulla soia sono caduti del 7,06 per cento, il massimo consentito, mentre il mais è sceso al -6,6. Anche il rincaro dei prezzi alimentari che tanto ha allarmato nei primi mesi dell’anno dovrebbe dunque rientrare per il calo della domanda, anche se la tendenza si farà evidente soprattutto nel 2009.

Anche i movimenti sociali stanno analizzando le cause e gli effetti di questa crisi che da “virtuale” e finanziaria si sta trasferendo nell’economia reale, condizionando la vita di miliardi di persone. «Stiamo vivendo un momento storico, decisivo per l’umanità. In questi giorni di crisi delle Borse è fin troppo evidente il fallimento del sistema capitalistico, già denunciato tempo fa da molti movimenti sociali. O si aprono le porte a processi di trasformazione urgenti e globali, oppure a pagare questa situazione saranno come sempre i più poveri del pianeta». A parlare è Edgardo Lander, sociologo e docente universitario venezuelano, durante la chiusura del Forum sociale delle Americhe 2008, riunione che anticipa di qualche mese il Forum sociale mondiale 2009, previsto dal 27 gennaio al primo febbraio a Belem, in Brasile. «La crisi attuale è in primo luogo di civiltà, di un modello di società e di vita che è controproducente perché basato sulla devastazione sistematica delle risorse naturali - ha concluso Lander - non sappiamo ora quale sarà il nuovo ordine mondiale, per questo la capacità di costruzione sociale dal basso deve essere sempre più efficiente». La crisi affonda le radici nella storia dal secondo dopoguerra a oggi. Nel corso degli ultimi 60 anni, a partire dalla “rivoluzione verde”, dalla trasformazione del campo a industria grazie alla chimica, l’agricoltura ha subito una profonda mutazione, anche in termini sociali e lavorativi.

Perfino il latifondismo è mutato, trasformandosi in agro business, in industria altrettanto escludente. In particolare in Africa e in America latina, l’industria agroalimentare sta trasformandosi in un “nemico” sociale per i poveri, per gli esclusi, per i piccoli contadini e per i senza terra. Diseguaglianze e crisi ambientale, causata dall’uso intensivo e distruttivo della chimica e delle monoculture tipiche del modello dell’agro business moderno, in molti Paesi hanno un’unica soluzione: la riforma agraria. «Il Brasile e l’Argentina sono gli unici Paesi delle tre Americhe che non hanno mai fatto una riforma agraria. Il nostro Paese è quello che possiede più terre coltivabili nel continente, circa 600 milioni di ettari, con il 59 per cento del territorio nazionale che è in una situazione irregolare, occupato da grileiros, posseiros e latifondisti - racconta Frei Betto, attivista dei movimenti sociali, teologo della liberazione e membro del primo governo Lula -. Lottare per la democratizzazione della terra, per mettere al primo posto la produzione di alimenti per il mercato interno (120 milioni di potenziali consumatori) attraverso piccole e medie proprietà, perché la terra sia libera dal controllo di imprese transnazionali, garantendo la sovranità alimentare al nostro Paese. Un cambiamento sostenibile della struttura fondiaria richiede un nuovo livello tecnologico capace di preservare l’ambiente e impiantare all’interno del Paese agroindustrie in forma di cooperative, facilitando l’accesso all’educazione di qualità». E Marian Dos Santos, della direzionale del Mst, il movimento brasiliano dei sem terra, è stata ancora più esplicita: «Il nemico principale è la crescita della collaborazione tra latifondo, agrobusiness e imprese transnazionali dell’agricoltura. Attualmente questo è il maggior ostacolo per un processo massiccio di riforma agraria. L’agro business sta subordinando l’uso delle terre e le risorse naturali brasiliane agli interessi delle imprese transnazionali dell’agricoltura come Bunge, Cargill, Monsanto, Stora Enzo, Syngenta e Adm, e alla speculazione nel mercato finanziario internazionale». Il caso brasiliano è certamente uno dei più eclatanti. La riforma agraria, inserita nelle modifiche costituzionali all’inizio del millennio con l’elezione di Lula a presidente, è stata attuata a ritmo lentissimo, un piccolo passo ogni anno se confrontata con la velocissima avanzata dell’industria agroalimentare e della produzione di biocombustibili. Una crescita basata principalmente sulla produzione di canna da zucchero e soia. L’impianto costituzionale prevedeva l’esproprio e la redistribuzione del latifondo “improduttivo”, senza tenere conto invece della trasformazione del latifondo in agro business multinazionale. Davanti alle lentezze dell’Incra, l’Ente federale per la riforma agraria, i latifondisti hanno attuato un nuovo processo, velocissimo, di attrazione di soci esterni, di gruppi internazionali, di speculatori finanziari. Il risultato è l’esclusione di milioni di cittadini brasiliani dalla produzione e dalla redistribuzione delle immense ricchezze del Paese. La conseguenza è un conflitto sociale mai risolto e oggi difficilmente affrontabile.

Altri Paesi latinoamericani, tenendo conto dell’esperienza brasiliana, stanno attuando oggi processi costituzionali di riforma agraria. L’Ecuador di Rafael Correa ha approvato da poche settimane la nuova Carta costituzionale che rappresenta uno dei punti più avanzati del nuovo processo di democratizzazione del continente. La nuova Costituzione di 444 articoli introduce il “socialismo del XXI secolo” con maggiori diritti ai cittadini, ma anche, per la prima volta al mondo, alla “natura” (intesa come “madre terra”, la Pachamama della tradizione india) intesa come soggetto di diritto. La Carta tratta infatti lo sviluppo come obiettivo del “buen vivir”, concetto chiave della cosmogonia indigena andina. Le riforme previste da Correa comprendono la riforma agraria ovvero l’espropriazione e la ridistribuzione di terre; il controllo statale su settori strategici come il petrolio, l’estrazione mineraria e le telecomunicazioni; l’assistenza sanitaria gratuita per tutti gli anziani; l’unione civile dei gay; pene ridotte e tolleranza per l’uso individuale di stupefacenti; il controllo diretto del presidente eletto sulla politica monetaria in sostituzione della Banca centrale e il potere di questo di sciogliere le Camere durante il proprio mandato. Impianto molto simile a quello proposto dal presidente Lugo in Paraguay, Paese fra i principali produttori di alimenti e sementi del mondo.

Tutt’altra impostazione ha invece la riforma agraria annunciata negli scorsi giorni in Cina, motivata più da una necessità di aumentare i consumi interni che da una risposta alla domanda di democratizzazione e di inclusione sociale. Il presidente Hu Jintao ha dichiarato che i contadini potranno «trasferire con vari strumenti i contratti di gestione della terra». In pratica usare la terra che coltivano come se fosse di loro proprietà. Secondo la legge cinese, infatti, la proprietà privata è riconosciuta e protetta dallo Stato solo per i residenti nelle città, mentre nelle zone rurali la proprietà della terra rimane “collettiva”. Questa discriminazione è alla base di gran parte delle proteste verificatesi negli anni scorsi in tutta la Cina. In base alle nuove proposte all’esame del Partito comunista cinese i contadini non avranno formalmente la proprietà dei terreni, vietata dalla Costituzione, ma di fatto potranno comportarsi come se l’avessero. Una delle conseguenze, secondo gli economisti cinesi, sarà la possibilità di creare vasti appezzamenti di terra sotto un unico “gestore”, in modo da permettere di sfruttare le economie di scala, creando moderne imprese agro-industriali. Ed è proprio questo tipo di possibilità a far temere che, dietro la sigla “riforma agraria”, si stia progettando un’immensa operazione di speculazione terriera organizzata e destinata alle oligarchie industriali cinesi. Come avvenuto, di fatto, nel settore immobiliare nelle megalopoli del grande Paese asiatico. 
 
left 43, 24 ottobre 2008

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