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Referendum| Riflessioni tra cronaca e storia. Costituente e Costituzione

Costituente e Costituzione: la «cultura dell’antifascismo»

 
 

Il primo documento ufficiale che ci parla di una nuova Costituzione è il D.L.L. n. 151 del 25 giugno 1944, firmato da Umberto II di Savoia. L’Italia è ancora un Regno e l’articolo 1 prevede che «dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che a tale fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per determinare la nuova Costituzione dello Stato».
La guerra di liberazione insanguina il Paese, ma c’è un governo guidato dall’ex socialista riformista Ivanoe Bonomi e su venti ministri, dodici sono antifascisti: l’azionista Alberto Cianca, confinato e fuoruscito proveniente da Giustizia e Libertà, Benedetto Croce, il cattolico De Gasperi, che ha conosciuto la galera fascista e l’isolamento, lo storico della filosofia Guido De Ruggiero, destituito dall’insegnamento universitario e arrestato, Giovanni Gronchi, cattolico e uomo della Resistenza, i comunisti Palmiro Togliatti, reduce dalla guerra di Spagna e dall’Unione Sovietica, e Fausto Gullo, ex confinato, il socialista Pietro Mancini, che ha sperimentato confino e carcere fascista, Meuccio Ruini, perseguitato politico, il socialdemocratico Giuseppe Saragat, fuoruscito e protagonista della Resistenza e Carlo Sforza, liberale, ex ministro e fuoruscito. Tutti, tranne De Ruggiero, saranno poi nell’Assemblea Costituente.

E’ un momento terribile nella storia dell’umanità; l’Italia, che paga le sue gravissime responsabilità per l’immane tragedia, è un campo di battaglia e sui monti la guerra tra democrazia e dittatura è senza quartiere. Iniziata nel settembre del 1943 a Napoli, insorta contro i nazifascisti, brucerà il Paese fino al 25 aprile 1945. In quei giorni, però, non «muore la patria», come hanno poi sostenuto Galli Della Loggia e una destra che non si è mai riconosciuta nell’Italia della Resistenza. In quei giorni, per dirla con la felice espressione di Gaetano Arfè, «la cultura dell’antifascismo» consegna al Paese l’eredità preziosa che la Costituzione nel suo insieme, non i suoi soli principi fondamentali, tradurrà in norme fondanti. Sono i valori ideali e morali nei quali, a guerra finita, si riconoscerà una larga maggioranza del popolo italiano.
Prima ancora che nelle norme, però, quei valori si sono affermati nelle coscienze: ideali di libertà, di pace e di solidarietà tra i popoli hanno sostituito la concezione della vita e la filosofia della storia che il fascismo aveva imposto e che purtroppo oggi riemergono: il mito del capo, la scala gerarchica tra caste, classi e razze, la violenza come motore della vicenda storica. I deputati della Costituente, portavoce di questo cambiamento, traducono con sapienza giuridica un dato che è anzitutto storico. Essi potranno scrivere la Costituzione, così com’è, solo perché sono parte di un processo che giunge a compimento e ha ormai radici nel corpo della società. In altre e differenti condizioni, senza quella mutamento, senza quella cultura, essi non avrebbero potuto mai scriverla com’è. Una Costituzione non si scrive «a freddo». Essa è un punto di svolta, il perno attorno al quale la storia volta pagina e apre le porte a un futuro che, nei fatti, disegna. Vico ci ha insegnato una legge fondamentale della storia: essa conosce picchi positivi e precipita poi verso il basso. La Costituzione del ’47 segna nella nostra storia il «corso positivo»; si può aggiornarla, ma rifarne un articolo su tre, significa abolirla e questo segnerebbe il punto di caduta verso il basso, il picco negativo e una nuova barbarie.

A produrre la svolta, in quegli anni, non è un elemento esterno, come probabilmente accade oggi, non ci si muove per interesse o infatuazione ideologica. La svolta è figlia di un’esperienza dolorosa, collettiva e drammatica. Proprio in quei giorni, affrontando il plotone di esecuzione, Giacomo Ulivi, un partigiano di appena vent’anni, ha rivolto alla generazioni future parole che spiegano meglio di mille discorsi ciò che è accaduto davvero nelle coscienze più attente e più avvertite: «Dobbiamo […] abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali», egli ha scritto, e poi ha proseguito:

«Quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita? […] Ma […] in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. È il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione […], che martellando per venti anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti […]. Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica ci siamo stati scaraventati dagli eventi. […] Credetemi, la cosa pubblica è noi stessi: […] ogni sua sciagura è sciagura nostra […] per questo dobbiamo prepararci. […] Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere. […] Avete mai pensato che nei prossimi mesi si deciderà il destino del nostro Paese, di noi stessi: quale peso decisivo avrà la nostra volontà se sapremo farla valere; che nostra sarà la responsabilità, se andremo incontro ad un pericolo negativo? […] Oggi bisogna combattere contro l’oppressore. Questo è il primo dovere per noi tutti: ma è bene prepararsi a risolvere quei problemi in modo duraturo, e che eviti il risorgere di essi ed il ripetersi di tutto quanto si è abbattuto su di noi».

Quando, nell’autunno 1945, nascono la Consulta Nazionale e il Ministero della Costituzione, due nuove dati emergono chiari: la maturità di un popolo, che sente l’importanza del passo che sta per compiere e la comune volontà di ogni forza politica di giungere con la necessaria preparazione «tecnica» all’appuntamento. La materia prima, tuttavia, è accessibile a tutti, perché ogni elettore, anche i più giovani, ha vissuto e pagato sulla propria pelle il conflitto sociale, la violenza delle passioni ed è stato in qualche misura partecipe di un risveglio. Non si tratta di inaccessibili teorie. Dietro le diverse bandiere non c’è la propaganda, ma una tragica e sofferta esperienza vita.

L’assassinio Matteotti, l’incendio del Parlamento tedesco, la guerra di Spagna, la battaglia nei cieli di Londra, la tragedia di Stalingrado, Auschwitz, Hiroshima, l’occupazione, la guerra in casa, la Resistenza, sono i mille volti di eventi che hanno scosso nel profondo anche le persone più semplici e meno attrezzate culturalmente. Sono dati concreti, vita vissuta a produrre esperienze e valori che danno un significato alle cose e un contenuto a parole che il regime aveva cancellato: libertà, pace, giustizia sociale, democrazia, solidarietà. Questo e tanto altro significano l’antifascismo e quella Resistenza che, scrive Arfè, è il crogiuolo «nel quale tutte queste esperienze si fondono: ne nasce una cultura nella quale tra ideologie diverse e tra loro contrapposte si instaurano nuovi dialettici rapporti e tutti finiscono con l’innestarsi in una trama unitaria intessuta col filo dell’antifascismo e dell’antinazismo».

La Repubblica è nei fatti, così come la schiacciante prevalenza di antifascisti militanti, di vite intensamente vissute, di grandi e significative speranze, che cercano risposte a una domanda chiara: come si costruisce un Paese senza guerra e dittatori, in cui ognuno è un «sovrano»? E’ la domanda cui dovrà dare risposta l’Assemblea Costituente. Una risposta destinata a durare. La scienza da sola non basta. Perché la luce si accenda, ci vuole coscienza storica. E poiché l’una e l’altra ci sono, ecco che la risposta giunge: occorre il sovrano di un Paese che fondato sulla dignità dei cittadini. E poiché il solo possibile sovrano di uno Stato senza ragion di Stato è il popolo, si comincia così: «L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…».
Perché funzioni, occorreranno libere discussioni, articoli collegati tra loro, 347 sedute – di cui 22 con prolungamento serale e notturno – 1663 emendamenti, dei quali 292 approvati, 314 respinti, e 1057 ritirati o assorbiti; 275 oratori parleranno in 1090 interventi; ci saranno 15 ordini del giorno e sulle decisioni più controverse 23 votazioni per appello nominale e 43 a scrutinio segreto. Quando il lavoro è concluso, Piero Calamandrei, uno dei nostri più grandi giuristi, pur riconoscendo i limiti, le insufficienze, le contraddizioni e persino le ambiguità, figlie di un compromesso, che è comunque di alto profilo, tra forze politiche che, piaccia o no, rappresentano le grandi correnti ideali che hanno fatto la storia del Paese, saluta la Costituzione augurandole una vita lunga e fertile e interrogando se stesso:

«Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana dove un secolo fa sedeva e paralava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia, e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andare dei secoli la storia si trasfiguri in leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi banchi non siamo stati noi, uomini effimeri i cui nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio da Anna Maria Enriques e di Tina Lorenzoni nelle quali l’eroismo è giunto alle soglie della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il lavoro che occorreva per restituire all’Italia la libertà e la dignità».

Nessuno in quei giorni avrebbe mai potuto immaginare Renzi, Boschi, Napolitano e un Parlamento abusivo.

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