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Razzismo in Libano verso i siriani. La rivalsa dei vigliacchi

Bon Voyage (di Tammam Azzam)

(di Elias Khury, per al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Khouzama Reda).

Correva l’anno 1975. Da allora in poi per i libanesi i visti di ingresso nei Paesi occidentali sono diventati una questione complessa. Chiunque possedesse un passaporto libanese si sentiva trattato nelle ambasciate come se avesse una malattia da evitare. Un improvviso senso di inferiorità si è diffuso in un Paese dove l’Io, gonfiatosi fino alla tumefazione, fiancheggiava un’ideologia che “in tutta umiltà” mirava alla libanizzazione del mondo!

Il leader sovietico Gorbachev − che guidò la perestrojka, che a sua volta portò al crollo dell’Unione Sovietica − sarebbe stato il primo a utilizzare il termine “libanizzazione” su scala mondiale. Egli infatti avvertì l’incombente libanizzazione del suo Paese, vale a dire, la sua disintegrazione e il conseguente sprofondamento in guerre civili, etniche e religiose.

Il termine libanizzazione, lanciato dal poeta Said Aql, si sarebbe ritorto contro il suo ideatore: anziché essere un’espressione che diffonde la gloria del dio Cadmo, nei dizionari è passato a indicare epidemie di disintegrazione e guerre civili. La profezia di Gorbachev sulla libanizzazione della Russia non si è avverata, così come l’espressione di Said Aql sulla libanizzazione del mondo si è rivelata una mera illusione.

Ciò che invece si è avverato effettivamente, però, è stata la libanizzazione del Medioriente in Iraq e in Siria: la lunga guerra civile libanese è apparsa come un semplice allenamento per altre guerre tremende che avrebbero distrutto i due Paesi vicini.

I libanesi bruciati dal fuoco della tragedia che ha arso il loro Paese, avrebbero scoperto che la loro guerra, nonostante tutta la morte, l’esilio e la distruzione che l’hanno accompagnata, è stata più misericordiosa nei loro confronti rispetto alle guerre che avrebbero colpito la Siria. I libanesi sanno anche che il momento della devastazione più grande sia a Beirut sia nel sud del Paese è stato il risultato della brutale invasione israeliana del Libano, perciò qualcuno potrebbe trovare una consolazione alla distruzione libanese leggendola nel contesto del conflitto arabo-israeliano.

La distruzione della Siria invece rivela solo il livello di decadenza barbarica cui è giunto il regime tirannico fondato da Hafez al Asad. Una distruzione accelerata che può essere letta nel contesto della guerra regionale tra l’Arabia Saudita e l’Iran, cioè nel contesto di una disintegrazione interna prodotta dai tiranni della regione di questa fase storica. Tutto ciò accompagnato dall’incapacità da parte delle forze democratiche di emergere e di sviluppare un progetto nazionale democratico.

Oggi il Libano gode di una stabilità relativa: il delicato equilibrio tra il sunnismo politico e lo sciismo politico è ancora in grado di proteggere il Paese ed evitare che scivoli verso la distruzione; il tutto alla luce di una decisione regionale di tenere fuori il Libano, almeno parzialmente, dalla grande esplosione del Medioriente. Questo è stato dichiarato con chiarezza dal leader di Hezbollah quando ha invitato i suoi nemici a combatterlo in Siria e non in Libano!

L’amaro senso di inferiorità vissuto dai libanesi durante gli anni odiosi e degradanti della cosiddetta “tutela siriana” del Paese, oggi si trasforma in senso di superiorità! Una nuova sensazione che trasforma il razzismo già presente nel sistema confessionale in un razzismo mescolato a odio e arroganza nei confronti dei rifugiati siriani in Libano.

La maniera in cui lo stato libanese ha trattato la questione dei rifugiati siriani ha fatto sì che la presa di distanza sviluppata dalla missione libanese presso le Nazioni unite [a causa delle prese di posizione conflittuali delle diverse fazioni libanesi nei confronti della questione siriana, N.d.T.] si sia trasformata da idea ragionevole in una vera beffa. Questa “presa di distanza” è diventata una copertura per le autorità libanesi che hanno evitato di assumersi le proprie responsabilità. Così, invece di mettere fine all’avventura di Hezbollah nel suo sostegno al sistema autoritario, ha aperto la porta all’intrusione e tale precauzione è diventata una cornice per rifiutare di trattare la tragedia umanitaria esplosa con l’arrivo di migliaia di siriane e siriani in Libano.

Il governo libanese ha rifiutato per ragioni confessionali di costruire campi profughi. Il Paese perciò si è riempito di accampamenti illegali − mille e quattrocento i campi stimati − ed è diventato impossibile regolare il soccorso e la sicurezza al loro interno. Anziché farsi carico dell’organizzazione sanitaria, alimentare ed educativa dei profughi, il governo ne ha scaricato il peso sulle spalle di organizzazioni non governative e di istituzioni internazionali. Come se ciò non bastasse, sono cominciate ad arrivare le decisioni municipali con l’obbligo di coprifuoco notturno solo per i siriani. Si è diffuso così un clima di razzismo patologico, ulteriormente aggravato dagli eventi di Arsal e dall’azione criminale dello Stato islamico nei confronti dei soldati libanesi rapiti.

È il razzismo di chi ha paura, dei deboli e degli sciocchi. È il razzismo di chi ha trasformato l’autorità in Libano in un vuoto controllato dalle diverse confessioni religiose e dai vari fondamentalismi. Il profugo siriano diviene un capro espiatorio. In luogo dell’empatia etica e umanitaria davanti alle tragedie dei profughi – i cui volti e le cui sofferenze rispecchiano la grande tragedia del mondo arabo − è esploso un razzismo ciclonico senza alcun deterrente politico o morale. Così il Libano è divenuto un incubo per gli stranieri e per gli sfollati e questo stigma non sarà cancellato facilmente e marchierà la nostra storia.

Il picco dell’irresponsabilità si è avuto con la decisione assurda dell’obbligo del visto per i siriani che vogliono entrare il Libano! Cos’è questo? Qual è il senso di un visto, condizioni di soggiorno, prenotazione in un albergo, e 1000 dollari in contanti? Il ministro degli Interni o il ministro degli Affari sociali o il direttore della Sicurezza generale pensano che un profugo possa prenotare un albergo? Pensano che la gente scappata dall’inferno dei barili-bomba di Asad abbia questa quantità di denaro? O forse pensano che i siriani risolveranno i problemi del turismo in Libano – ormai decaduto da anni e ulteriormente aggravato dai recenti scandali sui prodotti alimentari?

Questa decisione di imporre il visto ai siriani mi porta a porre due domande:

La prima è legata al futuro del Libano stesso. È evidente che chi ha preso questa decisione non si rende conto delle sue pericolose conseguenze sul futuro del Paese. Questa manipolazione razzista dei destini dei siriani si rifletterà senz’altro nelle future relazioni fra i due Paesi. Cosa succederà quando la Siria si riprenderà dal suo calvario? Cosa succederà quando l’economia del Libano tornerà a essere ostaggio della geografia e si svilupperà un razzismo contro i libanesi? Rimpiangeranno forse i libanesi la “fraternità” e il “destino comune” dopo il trattamento criminale a danno delle vite di circa un milione e mezzo di profughi siriani?

La seconda domanda ha a che fare con l’etica dei libanesi. Questa posizione razzista nei confronti dei profughi siriani evidenzia la totale decadenza di tale etica. La posizione delle autorità libanesi è un riflesso delle posizioni sostenute dalle confessioni l’una nei confronti dell’altra, ed è un indicatore della profondità dell’abisso morale in cui è caduta la struttura politica libanese.
E se l’obbligo del visto per i siriani fosse una vendetta tardiva e volgare per il crollo della reputazione libanese nel mondo, crollo che ha reso l’ottenimento del visto per i libanesi una questione estremamente complessa? Ora i libanesi possono essere orgogliosi del fatto che si stanno vendicando della loro miseria imponendo altra miseria ai miserabili. Potete essere orgogliosi, sciocchi: adesso avete anche voi la possibilità di dare un visto e umiliare chi lo richiede.

Questa è la rivalsa dei vigliacchi e la linea politica di chi decide di prendere le distanze dai problemi del proprio Paese.

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