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Questione libica, amnesia generale Ue: “Contrasto emigrazione prioritario!”

La riduzione dei mezzi statali di soccorso ed il blocco imposto a quasi tutte le navi umanitarie, prima con i processi penali, adesso con il fermo amministrativo, stanno rendendo il  Mediterraneo centrale uno spazio di eliminazione fisica dei migranti che non si vuole fare arrivare in Europa.  

di Fulvio Vassallo Paleologo

 Uno spazio che si vorrebbe sottrarre a qualsiasi giurisdizione effettiva, soprattutto con i respingimenti collettivi, operati anche attraverso navi private, e con la esternalizzazione alle milizie delle attività di blocco in alto mare, operate da mezzi libici sotto un coordinamento europeo che si vuole nascondere ad ogni costo. Nel frattempo si tiene nascosto il ruolo effettivo della  missione Nauras della Marina militare italiana (Operazione Mare Sicuro) presente dal 2018 nel porto militare di Abu Sittah (Tripoli).

Probabilmente in Italia qualcuno sta facendo il calcolo sbagliato, ritenendo che il prevalere delle forze del Governo di Tripoli (GNA) sull’esercito del generale Haftar (LNA) possa permettere un maggiore controllo delle partenze ed una più efficace collaborazione con le autorità di Tripoli. Come se nessuno ricordasse,  al pari dei crimini commessi dall’esercito di Haftar, chi sono i comandanti della guardia costiera e delle milizie alleate con Serraj, gli stessi uomini collusi con organizzazioni criminali, o direttamente rappresentanti di queste formazioni militari e marine che da anni controllano i porti di Zawia, Sabratha e Garabouli. Gli stessi personaggi che sono stati accreditati in Italia dal nostro governo e che  nel 2017 sono arrivati persino a visitare la sede del Comando centrale della Guardia costiera italiana a Roma ed il Ministero dell’interno. Sembra che su tutto questo oggi sia calata una amnesia generale.

Più che la situazione di emergenza che tutto il mondo sta vivendo, e che sta comportando ovunque un incremento dei poteri di polizia attraverso la dichiarazione dello stato di emergenza, in Libia si sconta una situazione di conflitto  che prescinde dalla epidemia da COVID 19 e va ben oltre la dimensione della guerra civile. Ormai a fianco dei principali contendenti Haftar con il suo esercito e le autorità di Tobruk, Serraj a Tripoli con le milizie finanziate per anni dall’Unione europea e dall’Italia, si sono schierate tutte le principali potenze del mondo.  La partita  sembra giocarsi soprattutto tra la Russia  che sostiene, con l’Egitto, il generale Haftar e la Turchia  che,  con l’Iran, si è schierata con Serraj ed ha inviato ben sei navi militari, di cui nessuno osa parlare, a presidiare il mar libico. La presenza di questa flotta militare turca nella stessa zona nella quale dovrebbe operare la missione europea IRINI per contrastare il traffico di armi verso le opposte milizie libiche ha messo definitivamente in crisi non solo la missione, già fallita in partenza, ma  l’intera politica estera europea in questa regione, soprattutto  adesso che la Francia si è schierata di nuovo dalla parte di Haftar, criticando l’intervento turco , che invece in Italia trova non pochi sostenitori, silenti ma assai interessati. L’Eni e numerosi grossi imprenditori sperano così di difendere le proprie posizioni in Libia. Dietro le politiche migratorie di law enforcement si nascondono così interessi economici sempre più consistenti.

Come osserva Yasha Maccanico di Statewatch , “l’isolamento delle politiche migratorie e dei loro obiettivi dai loro effetti nocivi permette di continuare a perseguire scopi come “ ristabilire la credibilità della politica europea sui rimpatri ” o “ esternalizzazione ”, come se non fossero una fonte di storture e di gravi violazioni dello stato di diritto, in Europa e fuori dalle sue frontiere”.

Bisogna prendere atto del fallimento di tutte le politiche basate sulle attività di polizia rivolte al contrasto della mobilità umana, il cd. law enforcement , e del costo in termini di vite umane che comportano, ma anche del costo che comportano dal punto di vista politico internazionale perché allontanano la composizione dei conflitti ed alimentano gli scontri tra le milizie. lo dimostra quello che sta succedendo in Libia negli ultimi due anni. Se gli stati dell’Unione Europea affidano un ruolo da protagonista a personaggi che non tengono in alcun conto il rispetto dei diritti umani e che vivono in una prospettiva di guerra permanente, per aumentare la propria area di controllo politico, militare ed economico, come sta cercando di fare Erdogan in questo momento anche nel Mediterraneo centrale,  non solo non si arresteranno le partenze e le stragi per abbandono in mare , ma la conflittualità sul territorio potrà soltanto aumentare. Oggi, dopo gli interventi della Russia, dell’Egitto ed il sostegno politico rinnovato dalla Francia nei confronti di Haftar,  malgrado i crimini di guerra di cui si è reso responsabile,  sembra sempre più probabile la sanzione internazionale della situazione di fatto della divisione della Libia, la Tripolitania da una parte e la Cirenaica dall’altra. Con uno scontro che si protrarrà ancora a lungo a sud, nel Fezzan, dove sono presenti importanti giacimenti petroliferi e dove i missili sparati dalle navi turche posizionate davanti alle coste libiche non possono arrivare. Una partita ancora aperta tra Serraj e Haftar  nella quale si potrebbero inserire organizzazioni criminali, tribù locali ed affiliati alle organizzazioni terroristiche che prosperano nei paesi del Sahel confinanti con la Libia . In questo contesto le attività di “law enforcement” hanno solo rinforzato alcune milizie a scapito di altre  ma non hanno certo ridotto le partenze o migliorato la condizione dei migranti intrappolati in Libia . Tantomeno è stato facilitato un percorso di riconciliazione nazionale che oggi sembra quasi impossibile.

Di fronte a questo scenario occorrerebbe permettere la sopravvivenza, con il “cessate il fuoco” e poi con accordi duraturi di pace, innanzitutto alla popolazione civile libica e restituire un minimo di sicurezza alle centinaia di migliaia di immigrati che si trovano da anni in Libia, non per attraversare il Mediterraneo, ma per lavorare in quel paese. Se le Nazioni Unite e l’Unione Europea non sono in grado di raggiungere questo risultato, è inutile che si avvitino in politiche di law enforcement allo scopo esclusivo di limitare le partenze dei migranti verso l’Europa, perchè comunque quelle partenze, dalla Libia,  o dalla vicina Tunisia , continueranno, e sarà soltanto maggiore il numero delle vittime. Occorre procedere all’evacuazione dalla Libia ed alla riapertura di canali legali di trasferimento da quel paese verso altri stati del mondo, e non solo in Europa.

Occorre riavviare al più presto ed in maniera più consistente che in passato, le operazioni di resettlement , anche attraverso la sospensione temporanea del Regolamento Dublino III, in vista di una sua sostanziale modifica. Dopo gli sbarchi dei migranti nell’Europa mediterranea, devono essere garantiti trasferimenti veloci verso altri paesi dell’Unione, con un piano di distribuzione che tenga conto del numero ancora ridotto degli arrivi (rispetto agli anni dal 2013 al 2017) e della effettiva capacità di accoglienza dei 27 paesi che fanno parte dell’Unione Europea.  Le situazioni scandalose in Egeo, nell’isola di Lesvos, al confine tra Turchia e Grecia sul fiume Evros, i respingimenti in Libia e gli “sbarchi autonomi” a Lampedusa, con il corollario di vittime che stiamo verificando, sono frutto degli accordi bilaterali e delle politiche di ritiro dei mezzi di soccorso.

Vanno incentivate le operazioni di ricerca e salvataggio in acque internazionali, definanziando le attività puramente repressive dell’agenzia Frontex e della missione IRINI e trasferendo queste risorse, che oggi ammontano a centinaia di milioni di euro, verso attività di soccorso in mare affidate a mezzi dei diversi stati europei, come si fece con Frontex nel maggio del 2015, con salvataggi anche nelle acque internazionali che ricadono nella cd. zona sar “libica”, da completare con lo sbarco in un porto sicuro, in Europa, come avveniva fino al 2018, e non in un porto in Africa.

Va abbandonata  la proposta che viene ripresentata in questo periodo anche a livello delle Nazioni Unite, dei cd.”punti di sbarco” in Libia ed in Tunsia, che potrebbero garantire “porti di sbarco sicuri”, solo per la presenza dell’OIM e dell’UNHCR. Una presenza che, come dimostra l’esperienza attuale, non garantisce il rispetto dei diritti umani delle persone riportate in Libia non appena queste persone vengono trasferite (e spesso scompaiono) dai porti di sbarco nei centri di detenzione “governativi” o “informali” direttamente gestiti dalle milizie. Luoghi dove la tortura a scopo di estorsione e gli abusi sessuali sono all’ordine del giorno.

Occorre prendere atto in definitiva della nullità degli accordi bilaterali che i diversi stati europei hanno stipulato con i paesi della sponda sud del Mediterraneo  per bloccare le partenze dei migranti, anche quando era evidente il costo che comportavano in termini di vite umane ed i pesanti abusi che i migranti, e le stesse popolazioni autoctone subivano per effetto del mancato rispetto dei diritti umani in questi paesi.  Una sentenza, rimasta isolata, di un Tribunale italiano ha correttamente dichiarato la nullità degli accordi tra Italia e Libia , ma non sembra che la rappresentanza politica italiana ne abbia preso atto, al punto che nel mese di febbraio di quest’anno gli accordi con la Libia sono stati rinnovati per altri tre anni.

È importante incrementare le attività di ricerca e soccorso a nord delle coste libiche, e va assolutamente cancellata la finzione di una zona SAR libica, ancora riconosciuta dall’IMO, organismo delle Nazioni Unite per la applicazione del diritto internazionale del mare.  Lo chiede anche l’Organizzazione per le migrazioni (OIM) delle stesse Nazioni Unite. Fino a quando  l’IMO, che ha sede a Londra, resterà sordo di fronte a queste richieste, non sospendendo il riconoscimento di una zona SAR riservata esclusivamente alle autorità di Tripoli, perchè in Libia, come si è detto, non esiste neppure un unico governo centrale, ed una unica Centrale di coordinamento dei soccorsi (MRCC). Occorre ribadire a livello internazionale la garanzia per le persone soccorse in acque internazionali di essere sbarcate in un porto sicuro ( place of safety ), come, con riguardo all’Italia, ha affermato  la Corte di cassazione con la sentenza sul caso Rackete del 20 febbraio scorso.

Non basta che si ponga fine alla guerra contro i soccorsi in mare ed alla criminalizzazione degli operatori umanitari, che sta comportando da ultimo il blocco, con il fermo amministrativo, delle navi delle ONG. Le acque internazionali del Mediterraneo centrale non sono una zona sottratta all’applicazione del diritto internazionale, al di fuori di qualsiasi giurisdizione. Se gli Stati hanno, come hanno per effetto delle Convenzioni internazionali, obblighi di salvataggio della vita umana in mare e divieti di respingimento, i singoli agenti statali che violassero questi obblighi e questi divieti, individuati in base a quanto previsto dagli accordi bilaterali stipulati da Malta e dall’Italia con le autorità libiche, ne dovranno rispondere personalmente. Se si riscontrerà ancora il concorso con le autorità libiche,  andranno individuate tutte le responsabilità degli operatori delle missioni di Frontex, che non possono chiedere alla Commissione europea di essere sottratti all’esercizio di qualsiasi giurisdizione, come hanno ripetutamente richiesto. Per questo la società civile si dovrà mobilitare per sostenere, oltre alle missioni direttamente mirate alle attività di soccorso in mare, altre missioni, a sud di Malta e Lampedusa, per documentare tutti i casi di ritardo nell’intervento di soccorso o di delega, anche attraverso navi commerciali, delle attività SAR alle autorità libiche.

Non si può accettare in definitiva che, a seguito delle dichiarazioni dello stato di emergenza che gli stati hanno adottato per effetto dell’emergenza sanitaria da COVID-19,  le attività di  law enforcement  rimangano del tutto sottratte al diritto sovranazionale ed a qualsiasi controllo giurisdizionale, ovunque si siano svolte. Non è una questione che riguarda soltanto il bene primario della vita dei migranti o i rapporti tra stati, con le pur rilevanti conseguenze politiche e d economiche. È una questione cruciale per la democrazia in Europa e per la pace nel Mediterraneo.

(Foto di Associazione Diritti e Frontiere)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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