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Quel bell’addormentato di Bellocchio

Il film di Marco Bellocchio - sul caso Englaro, secondo l’opinione corrente - ha suscitato le reazioni più disparate; com'era prevedibile per l'argomento e anche per l'autore e per la sua storia.

Il quotidiano spagnolo El Paìs giorni fa titolava “I personaggi sono ovvi e le loro azioni scontate. Un’autentica pena”, ma il pubblico in sala ha riservato ben 16 minuti di applausi al regista piacentino, gradito da gran parte della critica non omologata alle posizioni vaticane; solo il Foglio e poco più hanno stroncato il film. Ciononostante il premio veneziano è scivolato via, inafferrabile, verso l’estremo oriente.

Su Notizie Radicali Gianfranco Cercone ha iniziato una sua recensione ricordando una scena clou del film più bello di Bellocchio (cui dette un contributo un po' più che essenziale lo psichiatra Massimo Fagioli), Diavolo in corpo, che aveva come protagonista un'indimenticabile Detmers a cui il fidanzato - brigatista sotto processo, ormai appiattito sulle più ottuse banalità borghesi - rivolgeva un gesto a due mani come a calmarne il bollente spirito ribelle.

Ebbene lo stesso gesto, in questa nuova pellicola, è rivolta da un padre al figlio che reagisce all’algida Huppert dalla religiosità ossessiva, dichiaratamente falsa, sempre intenta ad osservarsi allo specchio. Il gesto del padre non è che una delle numerose autocitazioni inserite ne La Bella Addormentata, pellicola complessa e intricata, di non facile lettura.

E se osserviamo proprio la Huppert, madre pazza che trascolora nell'altra madre che lo squilibrato fratello del giovane protagonista vorrebbe uccidere, siamo indotti a pensare che non ci si è allontanati poi troppo da Pugni in tasca, dunque. Il film d’esordio di Bellocchio, del 1965, fa spesso capolino fra le ombre di quest’ultima fatica dalla raffinatissima fotografia, al limite del barocco tanto quanto i complessi intrecci di una sceneggiatura leggermente sovraccarica.

Certo la fotografia si fa ammirare molto, indubbiamente il montaggio è perfetto e la musica non lo è da meno. E certo gli attori sono davvero notevoli, dal contenuto Servillo ad un Herlitzka sornione, ad un’intensa Maya Sansa, fino al credibilmente psicotico Fabrizio Falco, pluripremiato a Venezia, o alla Rohrwacher, istintivamente claustrofobica. Appare invece vagamente sopra le righe l’ex-giovane Bellocchio e decisamente troppo evanescente Michele Riondino. Qualche cedimento quando sembra che non si sappia più come uscire dagli inviluppi insistiti di rosari e preghiere e liturgie varie. Ma, a parte questo, si può parlare di un film in puro, rigoroso stile Bellocchio.

Ma. Ma qualcosa sfugge. E questo qualcosa sfuggente sembra essere, nonostante tutto, proprio l’intensità emotiva che ci si aspetterebbe da un film su argomenti così scottanti, così personali e difficili. Un film sulla morte, sul chiedere la morte, sull’aver diritto alla morte e poi sul rifiuto della morte. Ricordate “Il mare dentro”? La pellicola spagnola afferrava alla gola lo spettatore, lo inchiodava, lo travolgeva, lo commuoveva, lo straziava.

Di tutto questo non c’è traccia nel film di Bellocchio. Non ci si commuove per le sorti di un’Eluana - casus belli di tutt’altre guerre sotterranee - che sta solo sullo sfondo, filo conduttore utile per legare i vari intrecci; così come non ci si commuove per la moglie-madre che chiede il distacco dal macchinario che la tiene in vita e la crocefigge alla sua sofferenza. E non ci si commuove per la sorella, bella come una perfetta statua di cera, in evidente coma irreversibile. Non ci si commuove perché il dolore non c'è. C'è una descrizione asettica del dolore, che è un'altra cosa.

Tutto scorre come se si ascoltasse, più che vederlo, un compito accurato su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un compito fatto bene, con giudizio e bravura formale e anche intelligenza. Dicendo le cose che vanno dette nel momento in cui vanno dette; come da copione.

Alla fine sappiamo quello che sospettavamo già: che è un atto d’amore aiutare a morire una persona in estrema sofferenza e senza speranze; che sarebbe un atto d’amore accettare la separazione da chi è indiscutibilmente morto, per fare un rapporto con il vivo. Ed è un atto d’amore rifiutare invece la morte a chi avrebbe - ed ha, come vuole dimostrare la tossicomane interpretata dalla bella Maya Sansa - tutte le possibilità di curarsi e uscire dalla depressione suicida. Tutto ovvio. Tutto prevedibile, tutto scontato. E non fa sgorgare nemmeno un po' di sano tifo da partigianeria politica.

"I personaggi sono ovvi e le loro azioni scontate"? Che abbia ragione El Paìs ?

In effetti ci si aspetta da Bellocchio il laicamente corretto, che non è poco in tempi in cui le Roccella e i Quagliarello, le Binetti e i Fioroni, con i loro accoliti di qua e di là dello schieramento politico, fanno i “loro” comodi; dove con “loro” si intendono i voleri delle gerarchie di Santa Madre Chiesa, appostate occhiute e guardinghe sulle sponde del Tevere e sui letti dei moribondi (e delle gestanti).

Ma ? Ma questo film non sembra davvero essere un discorso sul fine-vita, sul testamento biologico o sull’eutanasia come appare. E' piuttosto una fotografia, ai limiti (ed oltre) della caricatura, dell’umana pazzia; dell’alterazione mentale grave, disumana, da alienazione religiosa specificamente cristiana, ma anche della pazzia da aggressiva ideologia laica.

E infine, più sottilmente vero, di quel "male di vivere" di chi non sa vivere, inchiodato ad un fratello schizofrenico, una storia d’amore con una giovane donna, sorprendente nella sua apertura e disponibilità.

Sembra questo il punto focale del film, non facile da individuare. Lo strano abbandono, la fuga, davanti alle profferte amorose, titubanti e così timide all’apparenza, quanto determinate nella sostanza, di una quasi-giovane suora - dolorante, orante e salmodiante - che però non si nega un improvviso amplesso con lo sconosciuto. Si regala e regala un incontro d'amore, abbandonando le amiche prefiche con cui era arrivata a pregare cristianamente per tenere “in vita” Eluana.

E si dà al giovane uomo che invece, dopo, fugge via, perché “tutto è troppo complicato”.

Indubbiamente i rapporti d’amore sono spesso complicati. A volte certi rapporti sono davvero “molto” complicati. Ma “troppo” complicati implica un’insostenibilità e una rottura; è un’ammissione di impotenza, una dichiarazione di resa. E il rapporto perciò si butta via, per badare un fratello squilibrato.

Potrebbero essere problemi reali nella vita reale, dove le famiglie devono davvero accudire quei malati di mente a cui lo Stato nega interesse e cure. Ma un film non è semplice rappresentazione del reale, è linguaggio per immagini e questa immagine, questa strana fuga da un rapporto “troppo complicato” lascia sconcertati.

Se un medico non fugge davanti ad una suicida provocante e provocatoria è mai possibile che un giovane uomo, dopo una notte d’amore, si direbbe felicemente "compiuta", non abbia il coraggio di tenere fuori dalla propria vita il pazzo, per vivere una sua storia intima ? 

Sono queste le due vicende che si confrontano ? Le storie di due uomini, il fuggitivo e il resistente, messi alla prova da un femminile sempre e comunque inquietante ?

Due reazioni ben diverse. E torna alla mente il giovane protagonista di "Diavolo in corpo", amato da una Detmers che non lesinava danze stregonesche, coltello alla mano e fulmini nel cielo, appena adombrata oggi da certe espressioni, da certi sguardi della Sansa.

Ecco che il maschio fuggitivo di oggi ci disegna - dopo ventisei anni - l'esatto, sconfortante opposto del giovane amante di allora, scalatore di palazzi: un bell'addormentato che rischia di non svegliarsi più. Che si ritira dai rapporti anche minimi con una donna, foss'anche una timida suorina lacrimosa, ma pur sempre donna. Questo è l'argomento della narrazione, nascosto fra le mille pieghe di un broccato luccicante come uno specchietto per allodole ed altrettanto inutile.

Per finire. Vedendo questo film alcuni cattolici di ambito talebano si sono alterati, non capendo niente come spesso accade loro (d’altra parte che si può pretendere da chi pensa davvero che due cellule dovrebbero avere addirittura dignità giuridica ?!). Ma l'Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani, non è sembrato proccupato più di tanto. Segnale inequivocabile.

E quelli che accusano Bellocchio di eccessiva ‘prudenza’ sui temi etici, anche loro non hanno capito che qui si parla d’altro. I temi etici, quelli veri, quelli seri, stanno ben al di là di queste dichiarazioni di facciata: affondano le loro radici in un conflitto duro con culture plurimillenarie. Ci vuole altro.

Fortuna vuole che se noi qui in Italia siamo delle belle addormentate, ci pensa poi la Corte Europea a darci ogni tanto uno schiaffetto per svegliarci. E per riportare le cose etiche sui binari di un banale buon senso perduto nei meandri delle Scritture.

L’unico tema “etico” di cui sembra parlare il regista è la cura (senza medicine) di quello che è andato storto nella personale storia psichica o al contrario la personale, eventuale resa ad un destino che si crede, o si vuole, irrisolvibile.

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