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Quando il volontariato deprezza il lavoro

Servono "volontari" per valorizzare il patrimonio culturale italiano? Forse sì ma a patto che non si tratti delle solite forme di occupazione ultra precaria

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

mi consenta una breve digressione, prima di giungere al punto. Come Ella sa, lo scrivente è un appassionato di arte. Alcuni anni addietro andai nella mia Palermo con un gruppo di amici di fuori, nell’intento di far loro da Cicerone.

Lungo il percorso che ci conduceva verso la cattedrale, due studentesse di terza media ci fermarono: si proposero come guida in particolare della Cappella dell’Incoronazione, uno splendido monumento pienamente medievale che personalmente lo scrivente non ebbe mai modo di visitare, perché ben restaurato – finalmente – molti anni dopo il trasferimento da Palermo.

Le due ragazzine ci estasiarono per la competenza, la spiritosità, la gioia di poter condividere con un gruppo di “turisti” la conoscenza delle ricchezze della loro città. Il tutto, grazie ad un intelligente progetto culturale della scuola media di appartenenza, che immagino abbia lasciato loro nel profondo l’amore e l’interesse per i beni culturali, che trasparì prepotentemente quel giorno.

Un patrimonio da valorizzare

Andiamo, adesso, al punto, Titolare. Quanti beni culturali preziosissimi, ricchi di storia, di arte, di vita delle città vi sono in Italia? Quanti di essi sono conosciuti? Per quanti di essi esistono catalogazioni, studi scientifici? Quanti sono stati oggetto di restauri ed interventi di ripristino? Quanti, invece, sono ancora in attesa di ristrutturazioni e riscoperte? Quanti sono inseriti in progetti di valorizzazione non solo del turismo, ma della vita vissuta di ogni comune italiano? Risposta semplice: una quantità talmente vasta, che nemmeno se ne ha un’idea precisa.

Nell’articolo pubblicato sul Corriere della sera del 14 luglio 2021, titolato “I preziosi custodi del bello”, Ferruccio De Bortoli tesse – condivisibilmente – le lodi del Terzo Settore, la rete utilissima di servizi proposti dagli enti non profit, che svolgono importanti funzioni di supporto ai servizi sociali e, fortunatamente, anche culturali, avvalendosi delle donazioni dei cittadini e dell’apporto disinteressato di tanti volontari.

Ci informa il De Bortoli dell’iniziativa di tre importanti enti, finalizzato a combattere degrado ed incuria che ancora affliggono troppe nostre città e in particolare Milano, Roma, Firenze, Brescia, Biella e Savona.

L’articolo immagina uno sviluppo, nell’arco di 8 anni, di 5.500 squadre di operatori dedicati, sottolineando, per loro, l’importante “occasione di formazione e lavoro”, che potrebbe coinvolgere fino a 36.000 persone. Tutti serrati in un progetto straordinario di manutenzione degli spazi pubblici italiani, sussidiando e supplendo ai comuni, inerti e con i bilanci disastrati, ed alle stesse iniziative e risorse del Mibact.

Per il progetto, si immagina un cofinanziamento pubblico di 245 milioni in 10 anni, mentre il resto sarà reperito dagli enti stessi.

Tutto molto bello. Se non vi fosse la nota stonata, cioè il riferimento alle occasioni di “formazione e lavoro”.

Formazione e lavoro o lavoretti?

Finché le funzioni di “custodi del bello” sono affidate a studenti delle medie e delle superiori, come anche ad universitari, o allievi di corsi di specializzazione o, ancora, a persone appassionate ed attente al bene comune, per forgiare e consolidare il loro interesse per l’arte, il bello e la dimensione umana delle città, nessun problema.

Qualcosa non va, e fortemente non va, se questa magnifica rete si immagina debba reggersi esclusivamente sull’operato di volontari, specie quando si tratti di un volontariato un po’ sui generis, che a meglio vedere altro non è se non acquisizione di lavoro vero e proprio, simulando attività di volontariato.

Sempre il 14 luglio 2021 su Il Fatto Quotidiano un articolo di Leonardo Bison ci mette di fronte al rischio che un volontariato, meritevolissimo, ma mal governato e sin troppo dipendente dai finanziamenti pubblici, più che occasioni di formazione e lavoro si presti, invece, a replicare all’infinito lo schema deleterio per il mercato del lavoro, consistente in “lavoretti”, sotto pagati e non qualificati nemmeno come lavoro, quindi lontani da ogni connessa tutela e regolazione.

L’articolo si riferisce al bando indetto dalla Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Mibact, finalizzato a reperire volontari appartenenti ad associazioni di volontariato, per attività connesse ai beni culturali. Una replica di una precedente iniziativa riguardante la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, dove circa 22 volontari assursero al titolo di “scontrinisti”, perché pur essendo sostanzialmente stati impegnati in vere e proprie attività di lavoro subordinato, furono pagati con la formula del “rimborso spese” per massimo 400 euro al mese, appunto a seguito della presentazione del celeberrimo “regolare scontrino”.

L’esperienza ora si ripete col nuovo bando del 2021, che assicura ai “volontari” attività da svolgere per 20 giorni al mese per 4 ore al giorno, per un “rimborso” spese massimo di 27,5 euro al giorno.

Non sembra, Titolare, necessario fare troppi giri di parole. Vi è una tendenza chiarissima a confondere istituti giuridici, finalità, rapporti contrattuali ed economici, che produce regolarmente poi la svalutazione del lavoro.

Uno sbocco professionale vero

Proprio la ricchezza straordinaria di beni da conoscere, analizzare, sistematizzare, valorizzare, catalogare e ricercare, ma anche divulgare e mostrare, evidenzia che il settore dei beni culturali, in Italia, dovrebbe costituire uno sbocco lavorativo importante, anzi determinante.

Invece, siamo al paradosso che la laurea in Beni culturali è assurta a paradigma delle cosiddette “lauree deboli”: un bel titolo di studio, che dà lustro e prestigio, ma di valore praticamente pari a zero per l’ingresso nel mercato del lavoro. Quando invece in Italia possessori di titoli di studio nell’ambito della cultura, del patrimonio culturale e dell’ambiente dovrebbero essere presi a forza dai Carabinieri a prestare lavoro, lavoro vero, un secondo dopo il conseguimento di quel titolo.

E questo paradosso, la presenza di un patrimonio culturale talmente immenso da non essere nemmeno conosciuto nella sua intera dimensione quali-quantitativa cui fa fronte una domanda di lavoro infima, ha una sua chiara spiegazione: le amministrazioni pubbliche non investono, anzi disinvestono sul “bello”. I comuni hanno i bilanci disastrati, si afferma, e quindi non possono destinare risorse.

Ma, se un comune non ha intenzione di dedicare i propri bilanci alla valorizzazione delle radici della propria comunità, reperibili proprio nei monumenti, nei capitelli, nelle stradelle, nelle viuzze, nelle abitazioni antiche, in ogni campanile di ogni chiesa, nelle stesse tradizionali sedi dell’enogastronomia, rinuncia colpevolmente ad una delle principali funzioni di governo e valorizzazione della comunità amministrata.

Così agendo, gli enti locali tradiscono l’attribuzione di funzioni operata dall’articolo 5, comma 1, del codice dei beni culturali:

Le regioni, nonché i comuni, le città metropolitane e le province, di seguito denominati «altri enti pubblici territoriali», cooperano con il Ministero nell’esercizio delle funzioni di tutela in conformità a quanto disposto dal Titolo I della Parte seconda del presente codice.

Né il Ministero si è fin qui fatto notare per iniziative volte alla vera e concreta valorizzazione dello straordinario patrimonio.

I “custodi del bello”

Dovrebbe essere cosa normale in ogni città ed in ogni borgo che “custodi del bello” formati nelle scuole e nelle università, accolgano ogni passante, ogni persona che fa ingressi nei monumenti e nei musei, per spiegare, illustrare, descrivere (nel tempo libero, programmato, tra attività di ricerca, catalogazione, restauro, allestimento, e tutto quanto altro sia necessario).

Ci siamo abituati alle orride “audioguide”, per carità ben lette da bravi speaker, ma necessariamente e totalmente prive dell’empatia, della carica di amore del bello che può trasmettere una persona che si affianchi ad un gruppo per spiegare le ragioni del bello, la storia, gli autori, la vita connessa.

Per altro, le audioguide non possono che reperirsi in percorsi “ufficiali”, all’interno di musei, pinacoteche e monumenti; ma la vita di una città, da scoprire attraversando la città, la può insegnare solo una persona esperta, che si affianchi ai concittadini (i primi ad ignorare il bello dei loro luoghi di residenza) ed i turisti.

E ci siamo abituati all’idea che quel che concerna turismo e cultura sia necessariamente connesso al transeunte, al precario, alla stagione, alla singola ed isolata mostra o manifestazione.

Manca totalmente qualsiasi progetto di valorizzazione stabile e di divulgazione del “bello” che poi si declama. Anche a causa di deleterie norme, come l’articolo 3 comma 1-bis, del d.l. 433/1992, convertito in legge 4/1993: “Il personale delle organizzazioni di volontariato è utilizzato ad integrazione del personale dell’Amministrazione dei beni culturali e ambientali”.

Una sorta di istituzionalizzazione appunto dell’idea che i beni culturali ed ambientali, in fondo, pur se esaltati come elementi indispensabili dell’interesse pubblico, siano marginali e che il volontariato, invece di essere sussidio e spalla di un sistema, tanto pubblico quanto privato, forte, diffuso e ricco di prospettive di studio, ricerca, valorizzazione e lavoro, ma lavoro vero, ne sia sostanzialmente un sostituto.

Volontariato, crocerossina del dissesto pubblico

Passa l’idea che “il bello” debba essere custodito e valorizzato di fatto solo dal “volontariato” e che le attività del settore siano, sostanzialmente, di serie B: da svolgere per poche ore la settimana, per progetti transeunti, con bassissima remunerazione, lasciando gli sforzi pur realizzati dalle istituzioni per formare diplomati e laureati in preda alla “debolezza” della loro specializzazione.

Passa, quindi, l’idea che i beni culturali non possano offrire un lavoro, ma solo occasioni di formazione, attività di volontariato, precariato, nella speranza che in un futuro qualche selezione pubblica possa contenere elementi di precedenza o preferenza per chi abbia operato, tramite le associazioni, come “volontario”, avendo, invece, spesso svolto attività di lavoro reale, concreto, soggette ad orari, a mansioni, ad attività da svolgere.

Il volontariato è un bene prezioso, finché se ne sappiano tracciare con chiarezza i confini. Il volontariato vero non può che essere dello studente impegnato in corsi di studio, oppure del pensionato, o ancora della persona che dimostri di non doversi sostentare col lavoro o, infine, di chi dispone di un lavoro e nel tempo libero si dedica al volontariato.

Se, come nei bandi e nei progetti, per quanto meritevoli, l’attività di volontariato, come spessissimo avviene, è svolta da persone in cerca di lavoro che si accontentano perfino della qualifica di “scontrinista”, pur di avvicinarsi ad un mondo che hanno studiato, apprezzato e nel quale vorrebbero inserirsi in modo serio, non si fa altro che insistere nell’avvitamento in se stesso di un Paese che non riesce a disciplinare nei loro corretti alvei lavoro, volontariato, politiche attive, politiche passive. E spreca patrimoni immensi, costituiti da beni e persone.

Foto di SatyaPrem da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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