Prospettive palestinesi
L'ultimo sondaggio di settembre del PSR (centro studi palestinese) dice alcune cose significative.
L’ultimo sondaggio di settembre del PSR (il Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah) ci fa capire alcune cose significative in merito alle prospettive politiche palestinesi.
La prima e più illuminante riguarda il giudizio sull’azione di Hamas del 7 ottobre.
Anche se risulta ancora complessivamente positivo (fig.1) per la maggioranza dei palestinesi (54%), nonostante una progressiva diminuzione (diciotto punti percentuali da dicembre 2023) sta cambiando più decisamente nella percezione degli abitanti della Striscia di Gaza.
In questa area da un iniziale favore (57%, dicembre) a un entusiastico supporto (71%, marzo), la percezione positiva ha poi cominciato a diminuire (57%, giugno) con il protrarsi dell’operazione israeliana, per assestarsi infine su un dato decisamente minoritario (39%, settembre). Oggi il 57% dei gazawi ritiene che l’azzardo di Hamas sia stato incorrect termine che in inglese può avere diverse sfumature (scorretto, ingiusto, sbagliato eccetera) ma tutte rivelatrici di una interpretazione negativa.
Questo cambiamento sembra andare di pari passo con la personale opinione su “chi uscirà vincitore da questa guerra” (fig.3).
È una domanda insidiosa perché non chiarisce esattamente se ci si riferisce esclusivamente al fatto militare in sé o se l’interrogativo potrebbe allargarsi fino a comprendere anche una ipotesi di vittoria politica o addirittura all’essere vittoriosi nella battaglia di immagine.
Nonostante l’implicita ambiguità notiamo che, mentre nella West bank l’idea ancora maggioritaria è che saranno i palestinesi a uscire vincitori dal conflitto (65% a settembre), a Gaza, dove si toccano con mano gli esiti sul terreno dello scontro, l’ottimismo è crollato: da una risposta positiva ancora maggioritaria in primavera (56%, marzo), dopo l’estate di guerra la visione appare molto più disincantata (28%).
Il quadro complessivo di questo sondaggio sembra indicare in origine la robusta convinzione che Israele non avrebbe saputo come rispondere alla cattura di così tanti ostaggi avvenuta nel corso dell’incursione dei miliziani nel sud del paese il 7 ottobre, e che, di conseguenza, la strategia elaborata dai leader di Hamas avrebbe portato alla vittoria.
Di fronte alla intransigenza dimostrata dal governo israeliano, anche a costo di una spaccatura pericolosa e dai toni drammatici all’interno del paese, la certezza di vittoria dei palestinesi (il 70% a dicembre, ma ben l’83% della West bank) ha cominciato a vacillare fino a un più contenuto, anche se pervicace, 50% a settembre.
La strategia dei gruppi islamisti può aver indotto una esagerata fiducia nella copertura offerta dallo scudo umano dei rapiti e dal peso politico del ricatto, fiducia peraltro suffragata dal caso del soldato Gilad Shalit per la cui liberazione furono rilasciati oltre mille prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Yahya Sinwar ucciso a Gaza pochi giorni fa.
Non si può tuttavia non pensare anche a una sostanziale mancanza di rapporto con la realtà da parte palestinese. Convinti di poter sconfiggere militarmente Israele, l’impressione è che vivano totalmente immersi in una irreale bolla propagandistica. Nella narrazione che gli arabi non possano mai essere sconfitti. Tuttavia Nisreen Faqeh, una donna palestinese intervistata dalla giornalista Francesca Borri, sembra smentire questa impressione: «Il 7 Ottobre ho brindato – disse – Come tutti. Ma un minuto dopo mi sono detta: Oddio. E adesso? Perché qui, ogni vittoria sembra una vittoria: e invece è una sconfitta. Perché alla fine, causa più guerra di prima». Lo sanno bene dunque.
La propaganda, vittoriosa grazie ai martiri, al Padreterno, alla Umma, a chissachi, se da una parte è indispensabile nel mantenere alto un senso di autostima e quindi di capacità di resistenza identitaria, indispensabile anche in un ipotetico futuro postbellico se non si pretende una Palestina intimamente stroncata, dall’altro altera completamente i rapporti tra le forze politiche disponibili alla ricerca di un compromesso dignitoso con Israele e quelle che invece spingono verso lo scontro totale che di fatto “martirizza” il proprio popolo per finalità ideologiche. Sintetizzando: “la paziente e lunga lotta contro l’entità sionista porterà alla vittoria finale”.
Contando sul fatto che Israele è indiscutibilmente una minuscola isola immersa in un grande mare ostile, la convinzione di poter vincere la guerra pur perdendo innumerevoli battaglie, rende l’ideologia dello scontro perpetuo molto difficile, forse impossibile, da sconfiggere.
“Non sarà la morte di Sinwar e degli altri leader islamisti a cambiare le cose”, avverte infatti Paola Caridi, esperta di Hamas.
Forse solo una lenta e progressiva normalizzazione di Israele all’interno del mondo arabo potrà farlo. E questo passa necessariamente da due fattori: il contenimento e ridimensionamento dell’Iran e, con esso, un sostanziale ridimensionamento anche delle organizzazioni islamiste più radicali, seguito poi dalla creazione di uno stato indipendente di Palestina all’interno di confini concordati. Da realizzare con il supporto e la collaborazione dei paesi arabi nel quadro di un allargamento degli Accordi di Abramo all’Arabia saudita. In questa prospettiva chi governerà Israele dovrà necessariamente scaricare i coloni più estremisti e le formazioni messianiche più deliranti. Ed è ipotizzabile che possa essere anche un politico di lungo corso, molto pragmatico, come Benjamin Netanyahu.
Resta aperta l’incognita palestinese. In che misura questi accordi potranno trovare una qualche approvazione se ancora un mese fa, alla domanda “quale di questi partiti appoggi?”, la risposta era “Hamas” per la maggioranza dei palestinesi (36%)? La decapitazione del gruppo dirigente di Hamas, completata con la morte di Sinwar, modificherà la convinzione che Hamas sia il partito preferito dai palestinesi?
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