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Procuratore capo dei beni della ’ndrangheta

 

Il paradosso della democrazia italiana, il cortocircuito della legalità sta tutto qui: nella decisione di un ex capo di una Procura della Repubblica di diventare il gestore dei beni di un condannato (in primo grado) in concorso esterno per associazione mafiosa.

 

Il luogo non è casuale: Crotone, la provincia più dimenticata della regione più "sonnacchiosa"d’Italia. La Calabria. Dove nulla ormai fa più scalpore. Nemmeno la decisione di un magistrato di passare impunemente, alla luce del sole, dall’altra parte della barricata.

Franco Tricoli, 70 anni, dopo essere stato a lungo capo della procura di Crotone, ha deciso cosa fare una volta andato in pensione: gestire i beni di Raffaele Vrenna. Non un nome qualunque in Calabria. Imprenditore da sempre in odore di ‘ndrangheta, ex presidente del Crotone calcio, ex vicepresidente di Confindustria regionale, imprenditore nel ramo munifico dello smaltimento dei rifiuti. Come si suol dire, un pezzo da novanta.

L’anomalia del caso Vrenna-Tricoli non inizia adesso. Per anni la moglie di Vrenna, Patrizia Comito, è stata la segretaria di Tricoli in procura. Mentre i sostituti crotonesi indagavano su Vrenna, la moglie dell’indagato lavorava in procura, smistando la posta, ricevendo i rapporti della polizia giudiziaria, accedendo a informazioni riservate. Nessuno ha mai gridato allo scandalo.

Per Franco Tricoli non soltanto tutto ciò era normale, ma anzi la moglie di Vrenna era ed è "un esempio, una donna da clonare".

Le strane coincidenze del caso Vrenna-Tricoli non finiscono qui: Luca, il figlio dell’ex procuratore capo, lavora in uno studio legale che da tempo immemore cura gli interessi di Vrenna, da cui riceve parcelle e consulenze. Un bell’intreccio, non c’è che dire.


Un intreccio su cui il CSM non ha mai avuto nulla da obiettare, una matassa su cui la commissione di indagine parlamentare antimafia non ha mai pensato di indagare.

Alla luce di questo scandalo fanno ancora più effetto le parole dell’ex PM di Catanzaro, Luigi De Magistris: l’uomo che stava indagando sulle collusioni tra affari e politica in Calabria, il magistrato che aveva messo sotto inchiesta l’ex ministro Mastella, i principali esponenti dell’Udeur e anche i vertici del PD regionale. E che per questo è stato rimosso, spostato ad altro incarico a Napoli per "incompatibilità ambientale".

In una recente intervista televisiva De Magistris ha affermato che "una parte rilevante della magistratura in Calabria non è affatto estranea al sistema criminale che gestisce affari di particolare rilevanza nella regione".

Un’accusa forte, netta, tranchant. Che getta un’ombra ancor più sinistra sulla Calabria e sul sistema di potere che regola tutti gli affari in quella regione.

Un sistema, o forse sarebbe meglio dire "Il Sistema", in cui politica, imprenditoria e criminalità siedono allo stesso tavolo. Spesso con un convitato di pietra: la massoneria.

A cui appartengono esponenti di tutti questi mondi. E dal quale, a questo punto, appare sempre più probabile che non siano estranei neppure esponenti della magistratura.

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