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Pomigliano: i lavoratori votano con un cappio al collo

Pomigliano: i lavoratori votano con un cappio al collo

Siamo, credo, uno dei pochi Paesi nel quale gli operai sono chiamati ad approvare o respingere un accordo firmato da sindacati e imprese. Che gran esercizio di democrazia, poter votare liberamente, concordare o dissentire con le scelte del proprio sindacato, difendere con il voto il proprio lavoro e le condizioni dello stesso.

Magari.

Quando i lavoratori sono chiamati al voto, non godono di alternative. Ricordo il referendum sul famoso accordo del 23 luglio 2007, firmato tra governo (di centrosinistra, allora) e parti sociali e approvato con una sonora maggioranza dai lavoratori. Senza voler contestare il chiaro esito del voto, già a porte chiuse il segretario della CGIL Epifani si era visto sottoposto a un mini-ricatto da parte del governo "amico": o mi dici sì adesso, lo intimò Prodi a Palazzo Chigi, o esco di qui e do le dimissioni. Neanche il tempo di consultarsi con il direttivo, e annunciare l’appoggio qualche giorno più tardi. E fu così che Epifani appose in calce la firma, accompagnata dalla ormai celebre formula "per presa d’atto", nel bizzarro tentativo di nascondere la sottomissione del sindacato al governo appeso a un filo per la risicata maggioranza. 

In una intervista a Repubblica, lo stesso Epifani svelò uno dei ricatti che pendeva sopra la testa dei lavoratori ("se le fabbriche votano no, cade il governo"). Ma il grande bluff riguardava il tema pensioni: in caso di vittoria dei no e ritiro del documento (che di certo presentava molti punti oscuri, su precarietà e occupazione giovanile innanzitutto) invece dello scalino concepito dal Ministro Damiano sarebbe scattato, di lì a una manciata di settimane, lo "scalone" Maroni (repentinamente, l’agognata finestra di pensionamento per anzianità sarebbe passata dai 57 ai 60 anni, fermo restando il periodo contributivo dei 35 anni). Di fronte a tale minaccia, qualsiasi lavoratore avrebbe ragionevolmente optato per il "male minore".

Oggi la storia si ripete, e forse in maniera addirittura più violenta, raccontandoci le manovre e la portata dell’attacco al mondo del lavoro di questo secolo: La FIAT ha lanciato sul tavolo delle trattative riguardo lo stabilimento di Pomigliano un out - out che ha dell’incredibile. O firmate, o chiudiamo tutto. Meglio: o firmate, o delocalizziamo. La logica é semplice e palese, ci racconta Paolo Flores D’Arcais: la globalizzazione permette e incoraggia la libera circolazione dei capitali (non solo in senso finanziario, ma anche degli impianti), e così anche quella della forza-lavoro necessaria, "ma senza portarsi dietro i diritti e le conquiste, salariali e non, che i lavoratori hanno ottenuto in un paio di secoli di lotte. In questo modo è lapalissiano che le condizioni dell’operaio italiano si avvicineranno progressivamente, e con ritmi che diventano sempre più rapidi, a quelle dell’operaio di Shanghai o bene che vada di Bucarest, visto che il padrone altrimenti trasloca l’intera produzione nei paesi dove il salario è letteralmente da “fame” e i diritti sindacali un miraggio". O votate sì, o perdete il lavoro. O approvate le nuove condizioni, o rinunciate a portare a casa le briciole che vi offriamo. 

Il nuovo diktat, che ha trovato la ferma e solitaria opposizione della FIOM (il sindacato "che rompe") imporrà ore di straordinario obbligatorie, riduzione delle pause, sanzioni disciplinari personali in caso di sciopero (fino al licenziamento) e possibilità di deroga al Contratto Nazionale riguardo il pagamento della malattia a carico dell’impresa. 

Tra questo e la possibilità di vedere chiudere per sempre i cancelli della fabbrica (ma non si parlava di "riconversione" del settore, vista la crisi del mercato dell’auto?) è chiaro cosa sceglierà un operaio con una famiglia a carico. 

Se la scelta deve essere tra lavorare come schiavi o morire di fame, per favore, gli operai lasciateli alla catena di montaggio, e non chiamateli più a votare con un cappio al collo. 

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