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Politica mafiosa e tessere fasulle: c’è davvero tanta differenza?

Il dibattito interno al PD sulla “questione morale” del tesseramento si è sciolto nel caldo umido dell’estate politica mentre continua, seppure rallentata dagli ozi delle vacanze, la battaglia correntizia tra Franceschini, Bersani e Marino per stabilire chi è più nuovo, più di sinistra, più laico.
 
Peccato perché se non fosse ipocrita l’allarme che aveva suscitato l’analisi dei dati del tesseramento tra i candidati alla segreteria del PD, una volta tanto si sarebbe potuto parlare di problemi reali di democrazia interna invece di inutili polveroni che stanno nascondendo il vero contenuto dei programmi dei contendenti: pochi ideali, pochi argomenti e molte trattative per accaparrarsi consensi da ripagare con chissà quale moneta.
 
Nemmeno lo scandalo pugliese che ha mostrato chiaramente la dimensione del cancro morale che una certa politica è riuscita a far penetrare anche in quelle forze di sinistra che mentre, ritualmente, celebravano Enrico Berlinguer e la sua genuina denuncia della politica mafiosa del pentapartito, dall’altro, pur rinnovando fiducia nella magistratura, parlavano di teoremi e di complotti.
 
L’occasione è propizia per chiarire una volta per sempre il significato di “politica mafiosa” ed è bene chiarirlo anche a coloro i quali, con memoria cortissima, cercano di riabilitare Bettino Craxi come un grande statista anziché considerarlo un moderno cospiratore del sistema democratico a mezzo corruzione continuata. Chi ha buona memoria ricorderà che in un celebre discorso in Parlamento Bettino Craxi “confessò” il finanziamento illecito dei partiti come una necessità della democrazia che aveva bisogno di pagare i costi del suo abnorme apparato di clientele. Era la prima volta che nel parlamento, sabaudo prima e repubblicano poi, il capo di uno dei partiti politici più importanti del Paese, già Presidente del Consiglio e regista “dell’onda lunga” socialista, ammetteva pubblicamente la corruzione. Quel giorno aggiunse che in fondo non era poi così grave proprio perché il metodo era diffuso e comune a tutte le forze politiche. E in questo è il primo segno della politica mafiosa: Tutti colpevoli, nessun colpevole come diceva Leonardo Sciascia.
 
Ma se proviamo ad analizzare il fenomeno della corruzione degli anni ’80 potremo capire che la realtà era assai più grave di qualunque fantasia. Nell’Italia del dopoguerra la corruzione politica rappresentò un metodo diffuso ed, in una logica orizzontale, il partito consentiva che ad ogni livello intermedio si amministrasse una fetta di potere attraverso la gestione degli appalti. Così a livello nazionale, provinciale e comunale, ogni corrente, attraverso i notabili locali, praticava il finanziamento del partito ed un certo arricchimento delle singole persone coinvolte. Funzionò così per 35 anni in cui l’Italia doveva costruire le grandi opere infrastrutturali o ricostruire quelle devastate dalla II guerra mondiale. Ad ogni opera si accompagnava un “contributo” che seguiva l’avanzare dei cantieri e con regolarità consentiva che le opere arrivassero al momento fatidico dell’inaugurazione. Agli inizi degli anni ’80 il metodo cambiò e ci fu il salto di qualità. La politica non si limitava più a contrattare un “margine” sul lavoro che comunque doveva iniziare perché fondamentale per lo sviluppo di quell’area che si trattasse di una strada, di una ferrovia o di un ospedale. Il metodo imponeva un ricatto sistematico. “C’è un progetto che si potrebbe finanziare noi dobbiamo guadagnare questo margine”. E fino a che la trattativa, a volte complessa e lunga, non arrivava alla fine l’opera non iniziava indipendentemente dalla necessità collettiva della stessa. Questa è la differenza mafiosa. L’opera si farà solo se ci accorderemo sul margine che dobbiamo lucrare. Questo significa che per oltre un decennio lo sviluppo del Paese è stato oggetto del mercanteggiamento tra politica e imprenditori. Tutto ciò ha generato una crescita sproporzionata dei costi delle opere, un aumento smisurato dei costi della politica (riguardare il congresso del PSI di Rimini, quello del tempio dell’architetto Panseca con tutto lo staff del partito alloggiato al Grand Hotel con codazzo di amichette incluso) ma ciò che è peggio ha vincolato la realizzazione delle opere pubbliche ai tempi degli accordi quasi sempre ritardandole. Questo è il metodo mafioso, quello ricordato da tanti oppositori della mafia. La criminalità organizzata in combutta con la politica si ingrassa nelle aree depresse e sottosviluppate che può ricattare e alle quali può imporre il voto di scambio.
 
Ebbene questo parallelo, seppure improprio nelle dimensioni, ha un nesso morale fortissimo con lo scandalo delle tessere truccate del PD a cui abbiamo assistito in questo ultimo periodo. Solo qualche esempio: A Napoli i tesserati sembrano (inspiegabilmente a tutt’oggi i dati ufficiali non sono disponibili) 90.000, quattro volte quelli di Roma e cinque volte quelli della Liguria. La Campania da sola vale un quinto delle tessere del PD a livello nazionale. Ma a Roma non stanno con le mani in mano. Tra Giugno e Luglio gli iscritti al PD nella regione si quadruplicano e viaggiano verso quota 80.000. In sé il dato sarebbe incoraggiante se non fosse che massicce richieste di pacchetti di tessere arrivano da circoli del Pd che negli ultimi anni non hanno svolto attività politica significativa. Un esame superficiale rivela irregolarità diffuse perché aggirando il vincolo della territorialità che obbliga il richiedente ad iscriversi al circolo di residenza, alcuni hanno prodotto indiscriminatamente tessere di persone residenti in altri territori. Così circoli come Corviale da 35 iscritti è passato a oltre 300. A Roma da 6.500 iscritti si passa a 30.000, in provincia da 2.000 si passa a 24.000 con punte come Civitavecchia, Genzano e Tivoli dove in rapporto agli elettori è come se 1 elettore su 4 avesse deciso di iscriversi al PD. In questo scenario di fronte alla denuncia pubblica di circoli del PD sotto assedio di tessere irregolari tali da mettere in discussione il voto precongressuale, il Comitato dei Garanti della federazione romana ha di fatto accettato il falso tesseramento e respinto le legittime proteste della base attiva e sana dei militanti del partito. Se questi dirigenti non fossero così ciechi e vedessero questa deriva autolesionista capirebbero che 50.000 tessere del Pd “comprate” all’ingrosso valgono 950.000€. Possibile che a nessuno in buona fede sia venuto in mente di chiedersi perché spendere una simile cifra e come si pensa di far rientrare l’investimento?
 
Eppure il metodo è conosciuto se in una intervista all’Unità del 15 Marzo 2007 (che pubblichiamo nella foto) il nuovo coordinatore romano del PD Riccardo Milana invocava tra i primi provvedimenti necessari un azzeramento dei 49.000 iscritti al PD dell’epoca che apparivano irrealistici e rendevano necessario, a suo dire, un censimento dei militanti attivi da cui doveva ripartire l’iniziativa politica. Chissà cosa ne pensa ora che il record è stato battuto, come mai non propone un azzeramento o almeno una neutralizzazione degli iscritti fasulli che sono stati generati durante la sua gestione? Oppure pensa di utilizzare questi falsi consensi per mascherare la sua gestione politica fallimentare? Auguri e buon suicidio.

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