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Politica e armi di distrazione di massa: la campagna elettorale che fu e quella che sarà

C’è il rischio che, passata la più immediata emergenza, ci si occupi di tutto tranne che di economia.

Tra le cose difficili da spiegare della nostra storia recente, c'è il fatto che i temi centrali della passata campagna elettorale furono "la sicurezza" e l'immigrazione; argomenti certo importanti, ma che avrebbero dovuto essere del tutto secondari per un paese che poteva (e può) vantare tassi di criminalità tra i più bassi del mondo sviluppato e dove l'immigrazione aveva (ed ha) dimensioni molto più contenute che in Francia, Gran Bretagna o Germania.

A chi osservava l'Italia spassionatamente, appariva evidente già allora, prima che la crisi finanziaria esplodesse in tutta la sua gravità, che fosse la nostra economia, prodotto e causa di una società ingessata, a non funzionare; la spada di Damocle del debito pubblico, d'altronde, pendeva già sulla nostra testa e il nostro sistema paese stava perdendo competitività da almeno un trentennio.

Avrebbero dovuto essere le questioni economiche, dunque, ad essere al centro dell’attenzione e sarebbe stato lecito aspettarsi che le forze politiche, con i loro rappresentanti, si scontrassero a suon di ricette per far tornare a crescere il paese.

Non accadde e questo fu certo colpa della politica, ma anche di un corpo elettorale e di un sistema informativo che alla politica consentirono di occuparsi d’altro. Si trattò di un accecamento collettivo sulle cui ragioni è il caso di riflettere perché, e i primi segnali vanno proprio in questa direzione, c’è il rischio che si ripeta nella prossima campagna elettorale; che, passata la più immediata emergenza, ci si occupi di tutto tranne che di economia.

Il punto è che non c’è modo di far uscire l’Italia dalle sabbie mobili in cui è finita senza imporre, a tanti, dei cambiamenti, ma che quasi tutti preferiscono aggrapparsi a qualunque illusione  pur di non cambiare. E’ quel che ha compreso benissimo Silvio Berlusconi che ha fatto del “va bene così”, ripetuto anche contro ogni evidenza, il vero motto della propria azione politica. E’ questa la ragione per cui tanti italiani, fino a ieri, parevano non rendersi conto di vivere in un paese sempre più povero; fermo, nella migliore delle ipotesi, mentre i suoi vicini “ma si sta male anche là” crescevano (pensate alla Germania) a ritmi tutt’altro che disprezzabili.

Che vada bene così, ormai non lo crede più nessuno, ma imprenditori e sindacati, artigiani e pubblici dipendenti, tutte le corporazioni, gilde e categorie in cui è divisa la nostra società sono concordi solo su un altro punto; nel rifiutare ogni minima responsabilità per la situazione e nel richiedere, magari a gran voce, che si cambi, sì, ma che cambino solo gli altri. Un dato di fatto ampiamente dimostrato dalle reazioni “isteriche” che hanno provocato le riforme minimali (perlomeno rispetto a quelle che sarebbero necessarie) proposte dal governo Monti.

Una realtà, quella dell’immobilismo di tanta parte della nostra società, perfettamente compresa da Angiolino Senza Quid Alfano che, cercando di portare il dibattito politico lontano dai temi dell’economia, non solo vuole far dimenticare in fretta l’inadeguatezza in questo campo del governo di cui era ministro, ma, memore degli “insegnamenti che ci ha dato Berlusconi”, non accennando neppure a quel che si dovrebbe fare, si vuole di fatto presentare come un garante dello “status quo”.

Un immobilismo diverso solo per il colore da quello a cui rivolgono certi settori della sinistra, i cui esponenti, magari riempiendosi la bocca con la parola lavoro, pronunciata con l’enfasi tipica di chi non ha mai lavorato un giorno, affermano di puntare ad una trasformazione della società da realizzare quando arriveranno ad avere la maggioranza assoluta (cioè mai), ma per il momento, lungi dal proporre una qualunque soluzione praticabile (oggi ed in Italia; non quando brillerà il sol dell’avvenire o in Scandinavia), si limitano a contrastare qualunque ipotesi di riforma.

Strategie lecite, quella di Alfano come quella della sinistra radicale, ma che avranno successo solo se glielo permetteremo; se consentiremo alla politica di fuggire ancora le proprie responsabilità per rifugiarsi nei temi e negli slogan cari ai bigotti d’ogni colore.

Fondamentale, nel tenere l’attenzione dei cittadini centrata sui problemi reali, sul qui ed ora, dovrebbe essere il ruolo dell’informazione. Memore dei titoli a mezza pagina dedicati  ai “romeni stupratori” nel 2008, uso il condizionale; mi aspetto, anzi, da un momento all’altro, l’esplosione di una qualche nuova arma di distrazione di massa.

Sarà il “matrimonio degli uomini” il tema caldo della prossima campagna elettorale?Se sarà cosi, oltre che ai politicanti, sappiamo già a chi dovremo dar la colpa.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.35) 20 marzo 2012 17:52

    Buona cosa ricordare quanto scritto nell’articolo, che l’italiano, si sa, ha la memoria corta ("passata la festa, gabbato lo santo").

    Una cosa però mi chiedevo e, sia ben chiaro, è solo curiosità mia, non un qualche inesistente "dovere" che carico sulle spalle dell’autore dell’articolo: oltre ai "problemi del (recente) passato", quali sono, se ci sono, le idee (possibilmente vincenti o, quanto meno, percorribili) per un futuro?

    Mi rendo conto che non è la più facile delle domande. Però... vogliamo iniziare a provare a parlarne? quanto meno a cercare queste soluzioni, se esistono?..

    Getto il sasso nello stagno: ridurre il più possibile, fino a farla scomparire, la "flessibilità coatta". Il mercato del lavoro, per chi lo desidera, è sempre stato flessibile quanto basta: è la flessibilità non voluta, figlia della famigerata legge 30 (in Italia: negli USA invece è figlia della new economy degli anni ’80-90), che ha creato buona parte dello stato di cose attuali. Dare delle certezze a chi lavora come dipendente, dirgli che deve preoccuparsi solo del suo lavoro e non, anche, di essere competitivo, credo sia (buona) parte della soluzione.

    La competitività sta bene dove è sempre stata: nei mercati e fra i professionisti e gli imprenditori: gente che ha scelto di confrontarsi nell’arena, perdendo o vincendo. Nel primo caso si fanno passi indietro, a volte si fallisce anche. Nel secondo si prendono allori e danari.

    Un lavoratore dipendente tutto questo non l’ha scelto: svolge la sua opera giornaliera, nella maggior parte dei casi, lontano dai riflettori, lontano dai premi... e quindi, penso io, anche lontano dai rischi.

    Posso quindi capire che, se la "sua" azienda fallisce... beh... anche il dipendente avrà dei problemi, dovrà cercarsi un altro lavoro. Ma diversamente, mi pare un pò "troppo comodo" farlo concorrere ai rischi (flessibilità in uscita) senza però farlo concorrere ai premi. (barca a Porto Cervo, aperitivino a Montecarlo, aereo privato, ecc.)

    Peraltro, nel momento in cui l’azienda fallisce, inviterei a confrontare il tenore di vita di un imprenditore e di un dipendente: è molto probabile che l’imprenditore se la passi molto meglio dato che quasi sempre il capitale personale non viene toccato.

    Sky

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