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Pianosa negli anni Novanta: "Vengo bastonato dalle quattro alle otto volte al giorno”

"Pianosa", di Matteo Greco, è un testo nel libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni" di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco (prefazione di Erri De Luca). Il libro si conclude con un'appendice dove sono raccolte alcune testimonianze che danno la percezione di quello che è successo nelle "Carceri speciali" delle isole di Pianosa e dell'Asinara agli inizi degli anni '90. Questo testo segue la pubblicazione de "L'isola del Diavolo" di Carmelo Musumeci, e quello di Marcello Dell'Anna ("Pianosa e l'Asinara negli anni '90: cosa furono le carcere speciali").

Tutti i testi sono contenuti nell'appendice del libro. 

Ormai da parecchie ore mi ero addormentato, ad un tratto mi svegliai di soprassalto. Alcuni secondini avevano aperto la porta blindata ed il cancello, erano entrati in cella ed avevano circondato la branda, mi dissero:

“Alzati, devi partire”.

“Per dove?”

Un secondino, con la mano destra, mi prese per i capelli, tirandomi fuori dal letto, un altro mi diede un pugno, dall’alto verso il basso, sul collo. Cercai di difendermi. Erano sei e si scagliarono tutti contro di me con pugni e calci, riuscii a dare qualche pugno, caddi a terra, mi rialzai, caddi e mi rialzai di nuovo, finché non ricaddi ancora a terra e non ebbi più la forza di rialzarmi. Il mio volto era ridotto a una maschera di sangue, non dissi una parola né pronunciai un lamento, si sentivano solo le grida dei secondini. Mi portarono all’ufficio matricola, ancora tutto stordito, mi misero i tre zippi (manette) e mi fecero salire su un furgone blindato. Scesi all’aeroporto militare.

Non chiesi dove mi stessero portando né dove fossero i miei vestiti. Avevo con me solo il pigiama che indossavo ed un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi imbarcarono su un elicottero militare, il rumore era assordante e non mi diedero la cuffia per proteggermi da quel frastuono. 

Dopo molte ore arrivai all’isola di Pianosa e lì ad attendermi c’erano una trentina di secondini, carabinieri e finanzieri. Era il 22 luglio 1992, ore 19:20, un caldo insopportabile. Spento finalmente l’elicottero - una liberazione per le mie orecchie - ancora tutto stordito mi fecero scendere e appena misi i piedi a terra alcuni secondini mi diedero pugni e calci, venni preso di peso come un fiammifero e lanciato dentro una jeep. Sbattei la testa sulla sbarretta del bracciolo del seggiolino e le manette mi vennero strette ancor di più, da bloccare così il passaggio del sangue; mi diedero un pugno in testa, gridando:

 “Abbassa la testa bastardo.”

Dopo cinque minuti di strada, mi fecero scendere spingendomi fuori dalla jeep, caddi a terra e con un gesto istintivo mi riparai il viso con l’avambraccio, venni sollevato di peso, e ancora schiaffi e calci: venni fatto entrare in un fabbricato e messo in una cella d’isolamento, tre metri per due, c’erano una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro con sopra un rubinetto da cui sgorgava acqua salata, non potabile.

L’isola di Pianosa era sprovvista d’acqua dolce, questa veniva portata sull’isola dalla nave cisterna che la prelevava da Piombino. Per bere si consumava acqua minerale imbottigliata, la Direzione ne concedeva solamente un litro al giorno, l’altra avremmo dovuto comprarla, se non avessimo voluto patire la sete.

Al fianco del lavandino c’era il gabinetto alla turca, a destra una mensola di ferro saldata al muro, a terra nel mezzo un seggiolino. I muri erano umidi, sopra vi si erano formati alcuni canaletti che arrivavano fino al pavimento, l’acqua scorreva come nei cambi di riso.

Mi venne ordinato di spogliarmi e, rimasto nudo, mi fecero abbassare a quattro zampe, mi vennero divaricate le natiche per ispezionarmi le mie nudità, mi fecero aprire la bocca, alzare la lingua per ispezionarmi meglio, mi guardarono persino dentro le orecchie e nei fori del naso; poi improvvisamente si scagliarono di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio durò alcuni minuti, lunghi come un eternità. Svenni, ripresi i sensi grazie ad una iniezione fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclamò:

 “Ma come è ridotta questa persona?”.

Il suo lavoro era quello di far finta di nulla (perché obbligata), infatti nel certificato per la medicazione scrisse: "Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte, perché scivolato in cella".

Venni obbligato a firmare una dichiarazione, in cui sostenevano che ero caduto da solo e poi venni lasciato per alcuni giorni in cella di isolamento, con un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto farcito con cicche di sigarette e pezzettini di vetro.

Spesso entravano in cella con una spranga per sbattere le sbarre, mi ordinavano di stare dritto e di abbassare la testa, di guardare a terra con le mani dietro la schiena ed ero costretto a salutare senza ricevere risposta, sia all’entrata dei secondini che alla loro all’uscita, questo per quattro volte al giorno. Mi venne consegnato un documento, col quale mi comunicavano che mi era stato applicato il 41 bis.

Tutti questi maltrattamenti, queste umiliazioni così crudeli, avevano uno scopo ben preciso: far dichiarare ai detenuti falsità (che per loro sarebbero state verità).

Dopo diversi giorni in cella d’isolamento, mi condussero nel reparto “A”, terza sezione, primo blocco, cella numero tre, qui trovai un detenuto. La cella poteva ospitarne tre, c’erano le brande ben saldate al suolo, a due metri d’altezza dal pavimento si trovava una bilancetta per conservare la biancheria; in un angolo, saldato al muro, vi era un televisore bianco e nero, a terra una panca di ferro lunga 2m x 50cm e un tavolo, tutto bloccato col cemento. Il detenuto che già era lì si chiamava Salvatore, ma si faceva chiamare Turi, era un mio concittadino, anche lui di Catania.

Turi mi offrì alcune brioches, uno dei pochi alimenti che ci era permesso acquistare. Le limitazioni sugli acquisti erano uno dei divertimenti che i secondini si concedevano sulla nostra pelle. Accettai con piacere per fame, avevo perso cinque chili. Turi mi diede un paio di pantaloni, una maglietta, alcuni boxer, non poté darmi le scarpe perché ogni detenuto poteva averne solo un paio.

Per la prima volta dal mio arrivo nell’isola, finalmente mi diedero la cena: un pezzo di mortadella e un pezzettino di frittata. In seguito mi accorsi che la domenica era il giorno più sicuro per consumare la cena, perché si presentava apparentemente senza scorie, diversamente dal pranzo quando, sia nel primo piatto che nel secondo, ci trovavamo dentro un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi. La carne non si vedeva mai. La tabella ministeriale del vitto non rispecchiava assolutamente ciò che veniva distribuito. Dove finivano i soldi stanziati per il vitto? Un gran mistero!

 Accendemmo il televisore e dopo qualche minuto arrivò un secondino ad ordinarci di abbassare il volume e Turi con gran pazienza eseguì l’ordine, dopo alcuni altri minuti ritornò lo stesso aguzzino e fece la medesima richiesta, a quel punto capimmo che il suo era solo un pretesto per disturbarci, visto che il volume era al minimo. Turi finse di abbassare il volume e il segugio andò via soddisfatto.

Le guardie venivano sull’isola a rotazione, si fermavano un mese o due al massimo, alcuni firmano per molti mesi, dato che la paga era molto alta, inoltre sottraevano ai detenuti molte cose, francobolli, sigarette, bagnoschiuma, shampoo etc.. Il vino e la birra erano tra le merci più rubate, appena qualche minuto dopo che le riponevamo nello stipetto, fuori della cella.

Pochi erano i secondini che si mantenevano sobri, la maggior parte di loro canticchiava allegramente la stessa canzone: Faccetta nera. Per me non era una novità. Sapevo già che perlopiù le forze dell’ordine battono a destra.

Di notte si dormiva poco o niente, a causa di questi indegni individui perennemente ubriachi, che marciavano sbattendo gli scarponi sopra le nostre celle e spesso giocavano con le latte vuote dei pelati, urlando e schiamazzando; finito di schiamazzare sul tetto, solitamente entravano in sezione, aprivano gli spioncini e c’insultavano pesantemente.

Alla mattina non conveniva prendere il latte o il caffè, perché ci venivano gettati addosso; quando si andava all’aria, di doveva salutare e mettersi, di fronte al lato della cella, con il viso rivolto al muro, mani e braccia aperte, gambe divaricate, testa abbassata ed un secondino con il cappuccio in testa, con i guanti e il manganello, ci tastava tutto il corpo, ci faceva poi voltare ed aprire la bocca e, dopo vari colpi di manganello che piovevano da tutte le parti, più si correva e meglio era, e così si arriva al passeggio.

Il tragitto che percorrevamo per arrivare al passeggio era pieno di secondini incappucciati che davano manganellate da tutte le parti e ci ingiuriavano con frasi oscene d’ogni tipo, finché si arrivava ai cancelli, che trovavamo chiusi. A quel punto bisognava fermarsi e partiva un altro pestaggio e, dato che non potevamo correre, dovevamo aspettare che il secondino, il quale ritardava di proposito, aprisse il cancello.

 Vedendo ciò, un giorno decisi di non andare al passeggio, allora i segugi entrarono nella mia cella e mi si scagliarono addosso: fu un massacro, un pestaggio così l’ho visto solo nei film dell’orrore. Esanime, mi presero di peso e mi trascinarono al passeggio. Mentre ero disteso a terra, mi si avvicinò Turi, ma un secondino gli urlò di non avvicinarsi, di non guardare, di allontanarsi e di passeggiare senza mai lasciare la fila. Era proibito parlare con gli altri detenuti, così rimasi a terra sotto il sole per un’ora. Finita l’aria, i secondini mi presero e, sempre trascinandomi, mi condussero in infermeria, dove venni messo su un lettino da visita. Il dottore non disse nulla, scrisse solo un certificato con la richiesta delle lastre; il mio viso era una maschera gonfia, il naso era rotto, il corpo pieno di sangue e di lividi, ero irriconoscibile, le pupille degli occhi coperte dal gonfiore delle sopracciglia e dalla carne del viso, il labbro rotto e gonfio, il dottore non sapeva cosa dire né cosa fare. Il comandante dei secondini con un sorriso gli disse:

“Non si preoccupi, questi mafiosi di merda, uomini senza onore e dignità, non sono nulla. Solo con i poveracci sono malandrini. Con noi guardie sono vigliacchi, ruffiani, tremano appena ci vedono, anzi fuori ci offrono il caffè, gente vile senza neanche un briciolo di dignità. Fra di loro, se un poveraccio si dimentica di salutarli, questo è già morto. A noi invece ci fanno un pompino, li trattiamo da animali, gli tocchiamo l’onore, offendiamo le loro famiglie, mogli, figli e cosa fanno? Ci leccano i piedi, questi sono i mafiosi di merda.”

A quelle sue parole seguirono risate divertite da parte dei suoi scagnozzi. Quando cominciai a muovere le dita, a riprendermi un poco, il dottore mi chiese come mi sentissi, se avevo sintomi di vomito.

Non gli risposi e lui intuì che non lo feci per paura di altre botte.

Venni portato in cella e per alcuni giorni venni lasciato tranquillo, non mi pestarono, ma continuavano ad insultarmi e dovevo con sforzo enorme alzarmi quando battevano le sbarre.

Per Turi fu diverso, veniva bastonato, umiliato ogni volta che usciva per andare al passeggio. Appena stetti meglio, ripartirono con altre botte, tutto questo durò 51 giorni. I pestaggi avvenivano dalle quattro alle otto volte al giorno. Di notte ci veniva gettata addosso acqua calda con una pompa e questo ai detenuti più anziani causava l’afa e lo svenimento. Bisognava alzarsi per pulire la cella allagata.

 Dopo quei 51 giorni, venne a visitare il centro di tortura l’Onorevole Tiziana Maiolo. Sull’isola i detenuti erano stati bastonati da pochi minuti. L’Onorevole chiese di visitare le sezioni, ma il comandante volle farle vedere soltanto le strutture. La Maiolo insistette nella sua richiesta di voler vedere i detenuti, così un vice maresciallo, come se fosse capitato lì per caso, l’avvisò che a breve si sarebbe alzato il mare e che se non fosse andata via subito non avrebbe più potuto partire, col mare mosso la vedetta non sarebbe partita e sull’isola non c’erano né alberghi né pensioni. L’Onorevole partì, ma non mancò di notare il mare piatto come una tavola e, una volta giunta a Piombino, andò direttamente al comando della Guardia di Finanza per informarsi se nelle ore a venire il mare sarebbe stato mosso. Gli addetti lo esclusero nel modo più assoluto.

 La Maiolo si interrogò sul perché avessero cercato una scusa per mandarla via e su cosa realmente succedesse in quel posto, le era arrivata qualche voce all’orecchio tramite alcuni avvocati. Infatti, anche gli avvocati che avevano chiesto il colloquio, per un mese si erano visti negare il permesso di incontrare i propri assistiti.

 Dopo alcuni reclami, tale permesso era stato accordato dal ministero dell’Interno e da quello di Grazia e Giustizia, così un’avvocatessa era andata a Pianosa per un colloquio con un suo assistito… la fecero aspettare per molto tempo fuori dalla cinta sotto il sole cocente, aveva chiesto un bicchiere d’acqua e le era stato rifiutato, solo dopo diverse ore le venne permesso di entrare. Venne perquisita, spogliata nuda.

Cercò di protestare, ma la secondina le mise quasi le mani addosso; l’avvocatessa intuì l’antifona e decise di rimanere zitta. Le venne tolto l’assorbente, venne ispezionata nei minimi particolari e poi fatta rivestire, dopo altre ore di attesa finalmente poté parlare con suo assistito. Non riuscì a dire nulla, era sconvolta, si scusò, raccontò i maltrattamenti subiti.

“Io non vengo più qui, mi dispiace, ci vediamo al processo.”

Il detenuto non raccontò nulla di ciò che era costretto a subire lui, ma l’avvocatessa capì tutto solo guardandolo. Presentava segni di pestaggi sul viso e aveva gli occhi neri e gonfi.

L’Onorevole Tiziana Maiolo, all’indomani della sua visita, telefonò al Ministero per farsi autorizzare a visitare i detenuti, venne quindi ordinato agli aguzzini di riportarla a Pianosa e di lasciarla parlare con i detenuti. Nell’ispezione fu accompagnata di malavoglia dal comandante e dal vice sceriffo. Entrata nella prima sezione, si fermò ad ogni cella, informandosi sullo stato delle cose. Notò negli occhi e nel viso la paura, i detenuti erano terrorizzati, la paura era troppo forte, se non fosse stata accompagnata avrebbero avuto il coraggio di chiedere aiuto. Accanto a lei c’erano tutti i secondini con i loro capi, i quali con sguardi di minaccia facevano gelare il sangue ai prigionieri. Paura e terrore erano per i detenuti padroni assoluti. I secondini avevano carta bianca. Alla fine l’Onorevole si fermò nella mia cella e mi chiese come stessi, risposi:

 “Male, vengo bastonato minimo dalle quattro alle otto volte al giorno”.

Mi sollevai la maglietta e la Maiolo rimase di ghiaccio, mai in vita sua aveva visto un corpo così martoriato. Il comandante divenne giallo in viso, cercò di affermare che ero un detenuto dalla psiche instabile e che gli ematomi me li ero procurati da solo. La Maiolo era piena di rabbia, chiese che le venisse aperto il cancello, voleva parlare da sola con me. Il capo degli aguzzini rifiutò di farlo categoricamente e la Maiolo urlò, lo stesso fece il comandante che intendeva intimorirla. Dopo un batti e ribatti, il maresciallo cedette e ordinò al secondino addetto alla sezione di aprire la cella. Le raccontai tutto, la Maiolo rimase sbalordita, prese nota di tutto quello che le dissi. Dopo che l’Onorevole andò via i secondini entrarono nella mia cella in assetto di guerra, erano in otto, entrarono gridando frasi oscene, io e il mio compagno venimmo colpiti con una guaina elettrica, io venni sollevato, sbattuto contro le pareti, il sangue scorreva copioso mentre loro ridevano. Non riuscivo ad alzarmi da terra e con gli occhi cercai il mio compagno di cella, lo vidi immobile, credevo fosse morto. Ad un tratto spuntò davanti alla porta una pompa, ne fuoriuscì acqua salata, la potenza del getto mi scaraventò in un angolo, l’acqua salata bruciava le ferite.

Comunque, dopo la visita della Maiolo, le torture diminuirono un po’, ma le iene continuarono a divertirsi. Spesso i secondini in un secchio d’acqua mescolavano shampoo e detersivo, materiali sottratti a noi detenuti, e poi versavano il tutto nel corridoio in modo da far diventare il pavimento molto scivoloso per i detenuti che andavano a passeggio, il fine era farci cadere. Un giorno un certo Zio Paolo, uomo anziano, batté al cancello con la testa aprendosi il cranio, i secondini gli urlarono di alzarsi e di continuare a correre, il poveretto non riuscì ad alzarsi finché i secondini non lo presero a calci…

Un giorno mi preparai per la doccia e chiesi alla guardia il bagnoschiuma e lo shampoo, lui mi rispose:

“Qui non c’è nulla, stronzo, a chi vuoi prendere in giro?”

Gli assicurai che me l’avevano consegnato il giorno prima. Il secondino, tutto arrabbiato, per intimorirmi disse: “Come ti permetti, cosa vuoi affermare? Che ti è stato rubato? Stronzo.”

Mi arrivò uno schiaffo e sbattei la testa contro il muro e a calci venni spinto fino alla doccia. Un’altra mattina, mentre mi trovavo al passeggio, venni chiamato dal vice sceriffo e, dopo essere stato ammanettato, venni fatto salire sulla jeep, che si mosse verso l’uscita.

Mi ordinano di tenere la testa abbassata. Ad un tratto il vice impugnò la pistola e mi disse:

“Stai per morire!”.

Mi puntò la pistola alla tempia destra. Non battei ciglio, certamente la paura c’era, ma non potevo fare nulla. In quel momento pensavo alla mia famiglia. Quando sentii il grilletto girare a vuoto, capii che si era trattato di una finta esecuzione, seguirono le relative risate dei secondini e come se non bastasse mi ordinarono:

“Ora scappa, corri per la campagna.”

Io risposi no con la testa, allora un aguzzino mi diede uno schiaffo e urlò:

“Scappa.”

Io non mi mossi. Presero una corda e me la legarono un capo alle mie manette ed uno alla Jeep, misero in moto e mi trascinarono, cercavo di correre il più forte possibile ma non potevo correre più della Jeep, finché inciampai con un piede in una buca, persi l’equilibrio, caddi e venni trascinato per circa 100 metri tra le risate e il divertimento dei maiali…

Alcuni giorni dopo, prima di andare all’aria, all’improvviso, durante la perquisizione, mi arrivò un pugno nel fianco destro. D’istinto mi mossi e, non l’avessi mai fatto, venni percosso in ogni parte del corpo con calci e pugni. Dopo cinque minuti di pestaggio il brigadiere ordinò agli aguzzini di smettere e mi portarono alle celle di punizione. Trascorsero tre giorni, venni chiamato dalla nuova direttrice, che aveva occupato il posto del suo predecessore. Tutti si davano il cambio dopo che per mesi con immane sadismo si erano divertiti sulla pelle dei poveri detenuti. Nel suo ufficio la troia mi comunicò che mi era stato fatto rapporto, questa motivazione: mi ero mosso mentre stavano perquisendomi. Provai a spiegarle i fatti, ma la troia mi minacciò e disse che mi avrebbe denunciato per calunnia. Sollevai la maglia per farle vedere il mio corpo tutto pestato a sangue:

“Questo chi me lo avrebbe fatto?”

La troia abbassò la testa.

“Può andare”.

Matteo Greco, detenuto

 

 

 

 

 

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