Perché quei fischi non sono il risveglio del Paese
Guardiamo all’ultima settimana. Fischi a Marcello Dell’Utri a Como – dove è stato costretto ad andarsene – e a Milano – dove non si è proprio presentato. Fischi a Gianni Letta e Rocco Buttiglione a Venezia. Fischi a Franco Marini alla Festa Democratica di Torino. A Mirabello invece per scatenare la polemica basta una minaccia di fischi. Quelli che gli “squadristi della libertà” dovrebbero rivolgere domani a Gianfranco Fini durante il suo discorso. O che dovrebbero provenire dal sit-in di Storace. O dai lettori di Libero. Fischi, infine, a Renato Schifani. Anche questa volta si parla di “squadristi” – viola e grillini, pare.
Cosa sta succedendo? Secondo alcuni è il “risveglio del popolo“, della sua “coscienza morale e civile“. Una sorta di rivincita della democrazia contro le “forze del male” che minacciano di farne un ricordo. L’idea è che chi abbia condanne per mafia non possa parlare in una pubblica piazza. Anche se non veste i panni del senatore, ma del semplice bibliofilo appassionato dei (presunti) diari del Duce. Allo stesso tempo a non poter parlare sarebbe chi dissente dalla linea del “popolo” (Marini) o del “monarca” (Fini). O ancora: a non poter parlare è chi rappresenta lo Stato. Come Letta e Schifani. Proprio come ieri non avrebbe potuto parlare il popolo, che diventa “amico di Spatuzza” se contesta, e un “partito dell’amore” se glorifica. Secondo altri invece quei fischi sono “antidemocratici“, roba da “squadristi”. Colpa del clima d’odio, al solito, creato appositamente dalla parte politica avversa per impedire alla propria di esistere.
Così accade che ad alzare la voce siano tutti. I contestatori di opposizione e maggioranza. I contestati di opposizione e maggioranza. Il popolo e le Istituzioni. Che a furia di alzare la voce volino botte e minacce. E che tutto questo faccia gioire chi ha a cuore la democrazia e la libertà di espressione. Non stupisce che si sia arrivati a questo punto, in un Paese dove chi dovrebbe tenere sotto controllo il potere è sotto controllo del potere e dove il racconto mediatico dell’Italia si è sostituito al racconto dell’Italia. Come se chi dovesse parlare di noi finisse inevitabilmente per parlare di una caricatura politica di ciascuno di noi, una banalizzazione dell’uomo che ha i tratti berlusconiani o anti-berlusconiani, che è amico o nemico, buono o cattivo – e che non ammette sfumature. Questa è l’esperienza quotidiana del confronto politico tra persone. I fischi non stupiscono, perché sembrano gli unici possibili supplenti a una giustizia ingiusta, che massacra i deboli, i diversi, gli ultimi e perdona i forti, i potenti, gli intoccabili. Alla scomparsa degli spazi dove esercitare un discorso pubblico sul senso della convivenza civile (si pensi anche al livello dei dibattiti televisivi, ad esempio). Così la democrazia significa linciaggio di chi non è in linea con la voce del popolo o del Governo. E alle domande – che presuppongono argomenti – si sostituiscono gli imperativi categorici – e cioè gli insulti.
Stupisce invece che tutto questo venga venduto come una conquista di civiltà, come il segnale che qualcosa di ancestrale e buono si stia svegliando e potrà finalmente tirarci fuori dal “fango” dove da una parte stanno gli “stronzi” e dall’altra chi “umanamente è una merda”. Come se non avere che le proprie urla non fosse una terribile sconfitta. Come se zittire l’altro – chiunque altro – non fosse una prevaricazione. No, penso che qualcosa di ancestrale si stia svegliando, ma che non sia nulla di salvifico. Penso che sia un misto di rabbia, frustrazione, sfiducia, tormento. Sentimenti su cui non si costruisce né un popolo né una democrazia matura. Forse è questo il punto in cui si arriva quando si permette a un condannato per mafia di sedere in Senato. Quando certe “ombre” vengono taciute o dette sottovoce. Quando chi dovrebbe rappresentare un popolo finisce per assomigliare a un suo ritratto criminale. E quando tutto questo appare inevitabile.
Meglio il grido di un corpo che si avverte malato e non sa guarire che il silenzio di quello che si lascia morire, diranno alcuni. Può darsi. Ma sempre di malattia si tratta e forse sarebbe il caso di provare a curarla tutti insieme, se ancora è possibile, invece di accanirci su chi ce l’ha trasmessa. O di gioire perché qualcuno si è scoperto malato.
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