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Per favorire lo sviluppo e la crescita occupazionale occorre frenare lo strapotere delle banche

 

La crisi economico-finanziaria, che imperversa da circa un anno, sembra stia rallentando la sua corsa. Gli interventi dei governi e delle banche centrali hanno scongiurato i rischi connessi al crollo della fiducia verso il sistema creditizio. L’Italia, contrariamente alle aspettative, ha retto meglio di altre nazioni economicamente sviluppate. Il nostro sistema produttivo, infatti, caratterizzato da una miriade di piccole e medie imprese manifatturiere, ha reagito abbastanza bene alla grave congiuntura. La nostra capacità di produrre ricchezza reale, vera, e non “ricchezza monetaria” derivante da mere operazioni di speculazione finanziaria, ci ha permesso di contenere i danni.

In questi mesi abbiamo assistito al crollo di un sistema economico troppo incentrato sulla finanza. Anzi, forse è più corretto dire che negli ultimi anni il sistema bancario ha progressivamente abbandonato quella che avrebbe dovuto essere la sua funzione principale: garantire la necessaria liquidità al sistema economico al fine di rendere possibili e agevoli gli scambi. Le banche, infatti, negli ultimi lustri hanno preferito impiegare i capitali nell’acquisto di derivati e prodotti finanziari ad alto rendimento, ma poco sicuri, piuttosto che sostenere imprenditori e artigiani. Questo modo di produrre “ricchezza”, completamente slegato dall’economia reale e fortemente condizionato da una concezione del “valore” esclusivamente basato sulla moneta, sui numeri e non, come dovrebbe essere, sulla qualità e quantità dei beni reali ottenuti, ha finito con il produrre “la bolla speculativa” che ha determinato le conseguenze che conosciamo.

Per fronteggiare la crisi, tra le altre iniziative, i governi e le autorità monetarie hanno favorito la drastica riduzione del tasso ufficiale di sconto (costo del denaro) e, di conseguenza, hanno finito per inondare il sistema economico di liquidità: si stima che la base monetaria attualmente in circolazione sia triplicata rispetto a quella degli anni passati. Lo scopo era quello di sostenere i consumi, la produzione e, quindi, i livelli occupazionali.

Tuttavia, le piccole e medie imprese manifatturiere del nostro Paese, sino al momento, non hanno tratto alcun giovamento da questa politica monetaria espansionistica, anzi continuano a lamentare notevoli difficoltà nell’accesso al credito, al punto che molte aziende sono costrette a ridimensionare l’attività se non addirittura a chiudere. Sembra quasi una beffa: le imprese manifatturiere italiane dopo aver consentito alla nostra economia di limitare i danni nella prima fase della crisi, contribuendo così a salvare lo stesso sistema bancario, sono vittime proprio della politica monetaria posta in essere da quest’ultimo.

Ma perché questa potente iniezione di liquidità non riesce a stimolare adeguatamente i consumi e sostenere la piccola e media impresa? Dove sta andando a finire questa montagna di denaro? Chi decide la sua destinazione?

Sembra che la finanza abbia iniziato a confezionare la prossima “bolla speculativa”: gli investimenti finanziari con rendimenti alti sono ripresi con maggiore intensità. Poco importa se non sono sicuri. Poco importa se si tratta di ricchezza fittizia, puramente monetaria e senza alcun riscontro in termini di benessere reale.

Nel nostro paese, al contrario di quanto è avvenuto negli USA, il management bancario è rimasto al suo posto, nonostante la discutibile gestione del risparmio e gli investimenti in “derivati”, molti dei quali provenivamo proprio d’oltreoceano. Il compito di curare la malattia è stato affidato agli stessi medici che, con interventi terapeutici discutibili, hanno contribuito alla sua diffusione!

Ora, se è vero che consolidate regole di mercato e insuperabili norme di diritto privato impediscono al Governo e alla Banca d’Italia di intervenire direttamente per imporre una discontinuità manageriale negli singoli istituti di credito, è altrettanto vero che nulla impedisce di rivedere, ad esempio, la soglia di garanzia nel rapporto fra patrimonio di base e il totale delle attività a rischio delle banche, al netto degli strumenti finanziari che possono essere emessi da queste ultime.

Attualmente, infatti, l’indice “Core Tier 1”, imposto dalla Banca d’Italia agli istituti di credito, è del 6%. Perché non rivederlo?

Se si elevasse questa soglia di garanzia si otterrebbero due importanti risultati: si frenerebbe la corsa verso gli investimenti speculativi e, contestualmente, si libererebbero risorse preziose da destinare agli artigiani e alle piccole e medie imprese manifatturiere.

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