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“Passaporto sanitario”: i limiti alle fantasie dei presidenti di regione

Dal 3 giugno si può circolare su tutto il territorio nazionale e, come sempre, non mancano le polemiche a contorno. Se uno dei temi che ha sin dall’inizio connotato l’emergenza sanitaria (e del diritto) per il Covid-19 è stato il contrasto fra governo e presidenti di regione (ora spostatosi nelle aule giudiziarie), nella fase 3 – quella attuale, ammesso di aver tenuto bene il conto – il tema si è arricchito degli scontri fra gli stessi presidenti di regione, nonché fra essi e qualche sindaco.

di Vitalba Azzollini

Il culmine è stato il botta e risposta tra il presidente della Sardegna e il sindaco di Milano sulla cosiddetta patente di immunità – attestato di negatività al coronavirus – quale condizione per accedere all’isola (come fa la Grecia). Del resto, è lo stesso protocollo della Bundesliga, ha detto il presidente, il quale ha pure dichiarato di avere pronto un piano B; e, da ultimo, il sindaco di Milano ha formulato delle “scuse”.

Ma non vanno dimenticati, ad esempio, il presidente della Campania, che ha chiesto «test rapidi», la presidente della Calabria, che vorrebbe «controlli in partenza», il sindaco di Trapani, che si è domandato perché non «fare un’analisi del sangue». Per mettere fine alle polemiche, è intervenuto il ministro degli Affari regionali, sentenziando: «Passaporto sanitario? Rileggete l’articolo 120 della Costituzione: una Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino la libera circolazione delle persone». Una presa di posizione così netta, con cui il ministro pretenderebbe di chiudere la questione, nonché l’importanza della questione stessa richiedono qualche verifica sul piano giuridico.

Ebbene, il mero richiamo all’art. 120 Cost. non chiude proprio niente: è necessario andare oltre per dimostrare che il “passaporto sanitario” – a parte non dare «alcuna certezza» scientifica – non è strumento pacifico nemmeno in punto di diritto.

Innanzitutto, circa l’art. 120, c. 1. Cost., secondo la Corte Costituzionale il divieto imposto dalla norma «non comporta una preclusione assoluta, per gli atti regionali, di stabilire limiti al libero movimento delle persone e delle cose»: una regione «potrebbe limitare la circolazione (…) in nome di altri interessi costituzionalmente garantiti», bilanciando la libertà di movimento con l’interesse di volta in volta da tutelare tra quelli «protetti, riconducibili a diritti fondamentali o a valori collettivi di carattere primario», fra cui rientra la salute pubblica.

In altri termini, l’art. 120, c. 1, se vieta che le regioni mettano «barriere o impedimenti ingiustificati e arbitrari alla libera circolazione», cioè «limiti che senza alcun fondamento costituzionale finiscono per restringere in qualsiasi modo il libero movimento», tuttavia non esclude che una regione possa porre condizioni per l’entrata nel proprio territorio. Purché esse siano giustificate dalla tutela di diritti costituzionalmente rilevanti; necessarie, cioè appropriate rispetto al fine che intendono perseguire; proporzionali all’obiettivo, in base a un corretto bilanciamento tra gli interessi coinvolti; temporanee, cioè connesse con lo stato di fatto che le ha originate, per non lasciare spazi alla normalizzazione dello stato eccezionale. 

Ma se non basta l’art. 120, c. 1, Cost., l’armamentario di norme costituzionali che alimentano i dubbi in punto di diritto sul “passaporto sanitario” è comunque molto ampio. Esse sono richiamate nel parere del Consiglio di Stato relativo all’annullamento dell’ordinanza del Sindaco di Messina (n. 105/2020), la quale imponeva obblighi e limiti a chiunque intendesse «fare ingresso in Sicilia attraverso il Porto di Messina». Assume rilevanza l’art. 3 Cost., poiché il principio di eguaglianza sarebbe violato con la “patente d’immunità”, che determinerebbe «una irragionevole disparità di trattamento» nei confronti di chi viaggia verso la Sardegna «rispetto alla generalità dei cittadini sul restante territorio nazionale».

E, comunque, non basterebbe un’ordinanza per sancire limiti al transito tra regioni, imponendo adempimenti – nello specifico, l’obbligo di un accertamento sanitario teso ad attestare la negatività al virus – per potersi spostare. A tale riguardo, il Consiglio di Stato richiama l’art. 23 Cost., «che fa divieto a qualsiasi pubblica autorità di imporre ai cittadini prestazioni personali o patrimoniali “se non in base alla legge”»; nonché l’art. 16 Cost., poiché la libertà di circolazione sarebbe limitata in violazione della “riserva di legge” disposta dalla Carta.

E c’è anche un altro profilo da considerare: la «disciplina di derivazione comunitaria in materia di protezione di dati personali» prevede che tale materia sia «riservata alla potestà legislativa esclusiva statale». Ebbene l’imposizione a livello regionale dell’obbligo di una qualche dichiarazione sul proprio stato di salute per entrare in un certo territorio – prescrivendo alle persone di rendere noti «dati personali riservati in funzione dell’esercizio di un diritto fondamentale di circolazione costituzionalmente riconosciuto» – non ha «alcuna base di legge statale». 

Il Consiglio di Stato afferma, inoltre, che «in presenza di emergenze di carattere nazionale (…) vi deve essere una gestione unitaria della crisi». Siccome – meglio non dimenticarlo – è ancora vigente lo stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio scorso, in questa situazione è lo Stato che “comanda”, ex art. 117, lett. q, Cost., avendo competenza legislativa esclusiva – tra l’altro – in tema di «profilassi internazionale». E lo Stato, nell’attuale circostanza, non consente ai presidenti di regione il potere di restringere in alcun modo la circolazione.

Infatti, il decreto-legge del 16 maggio scorso (n. 33/2020) dispone che gli spostamenti tra regioni diverse possano essere limitati solo dal Presidente del Consiglio con Dpcm o, in casi di estrema necessità e urgenza, dal ministro della Salute, «in relazione a specifiche aree del territorio nazionale, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio epidemiologico effettivamente presente in dette aree».

Questa norma, sulla base del citato art. 117, lett. q, Cost., non lascia alle regioni alcun margine per porre autonomamente condizioni alla libertà di movimento, “passaporto sanitario” incluso. Certo, poi è lo Stato che dovrebbe agire anche in sede giudiziale a fronte di regioni indisciplinate, cosa che nelle precedenti fasi dell’emergenza ha per lo più rinunciato a fare, mentre ora il ministro degli Affari regionali preannuncia eventuali impugnative.

Nelle ultime ore, sulla questione pare sia stato trovato un compromesso: tracciamento dei turisti, conservazione dei dati per due settimane, test sierologici soltanto in maniera volontaria. In attesa di vedere come andrà a finire, resta quanto sopra esposto sul piano del diritto: in un momento in cui il futuro è ancora epidemiologicamente incerto, così come le eventuali reazioni dei presidenti di regione, almeno giuridicamente c’è qualche punto fermo.

 

Foto di Anastasia Gepp da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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