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Pagliacci in fila verso l’abisso: recensione di "Straw man" di Giovanna Velardi

 

Quando uno non sa bene come orientarsi cerca paragoni. La complessa decifrabilità della nuova produzione di Giovanna Velardi, coreografa ormai di primo piano, in Italia e all’estero, mi ha portato a individuare precedenti, ispirazioni, tracce da cui partire per una riflessione. Lo spettacolo si chiama “Straw man”. Siamo al Teatro Nuovo di Napoli, nell’ambito della rassegna “Quelli che la danza”, promossa dal Circuito Campano della Danza diretto da Mario Crasto De Stefano. Forte di un precedente che mi aveva stupito, “Alice’room”, sono terribilmente incuriosito da questo lavoro che la Velardi condivide, nella parte di scenografia elettronica, con Dominik Barbier e Anne Van den Steen. Dicevo che ero in cerca di paragoni: e mentre seguivo le crude sequenze di “Straw man” ho pensato a certi inferni orchestrati da Pippo Del Bono, a qualcosa di materico alla Emma Dante. Ero fuori strada ma l’ho capito alla fine.

La scena si apre con un video che mostra una costa, probabilmente quella della Sicilia, la terra della Velardi; invita gli spettatori ad entrare in questa narrazione dove, tra l’altro, l’impronta dell’isola è forte anche se la tensione è universale. A conferma di questo, dopo alcuni minuti si scorge un cerchio di luce che, espandendosi, mostra un uomo vitruviano stilizzato e circondato dalle fiamme, risolto, in dissolvenza, in un Tao. Arrivano le danzatrici, Alice Zanoni, Sabrina Vicari, Simona Miraglia, Emanuela Fenech, guidate dalla coreografa. In penombra si scorge, sul loro corpo, un’armatura grottesca che vorrebbe esaltarne le forme, apparentemente giunoniche ma in realtà posticce, che appiattiscono i corpi in un eterno ritorno del falso. Ma non è di femminilità deformata che si vuole parlare; o meglio, quello del conformismo estetico è solo uno dei trampolini con cui raccontare la sconfitta del senso. L’umanità perde significato e una carrellata di manichini urlanti, o svuotati, o in preda a caotici furori lo andrà a suggellare. L’uomo di paglia, lo straw man del titolo, sta avendo la meglio sull’uomo di sangue. Di quella carne svilita restano solo brandelli, come è potentemente trasmesso da uno dei momenti più forti dello spettacolo: i ballerini fanno a pezzi polli, salsicce, bistecche in una ridda di movimenti e strida. Anticipati dalla Velardi che ripete una sorta di invettiva in dialetto, con una rabbia che non può che superare il vero. Da segnalare la mimica di questa straordinaria artista: dal volto fisso verso l’alto con cui presenta la storia, quegli occhi ipnotizzati e annientati, alla rabbia “popolana” con cui da il via alla lotta di carne. Sul pavimento restano le frattaglie, gli attori scivolano tra sangue e brandelli. Dario Tumminia, unico uomo in scena, di questa instabilità restituisce un’incredibile sequenza, sottolineata dalle musiche di Domenico Sciajno. 

È il trionfo della nudità oscena, della scarnificazione tramite il corpo, che denuncia il torbido in cui precipitiamo. Mentre i soli che continuano a marciare sono i nostri avatar, in un sinistro girotondo verso il baratro. L’ultima scena è talmente sorprendente che non la anticiperò: dirò solo che non coinvolge alcun interprete. Dall’eleganza armonica, pur declinata in forti asimmetrie, del precedente spettacolo, la Velardi spiazza con una rappresentazione estrema. Chi volesse rinvenire stili, continuità, “scuole”, resterà deluso. L’unico filo conduttore è lei. Con quel gesto, che forse è un suo mantra: un piccolo movimento del braccio dall’alto verso se stessa, indice e pollice ad afferrare l’aria, come a prendere un concetto, o l’idea del concetto, e volerla stendere davanti a noi, nell’impossibile tentativo di dare ordine all’incommensurabile. 

Lo spettacolo sarà, in una versione sviluppata e con titolo diverso tanto da poter parlare di debutto ufficiale, al "Nova Scena" di Praga il 1 maggio e alle Orestiadi di Gibellina a luglio.

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