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PMI in borsa, ultima immaginaria urgenza nazionale

Il governo punta a un fondo di fondi "centauro", pubblico e privato, per investire nelle PMI italiane che decidessero di quotarsi. Siamo sicuri che il fondo e la quotazione siano davvero necessari?

Come forse saprete, l’esecutivo ha deciso che, per favorire lo sviluppo delle piccole e medie aziende italiane e la loro raccolta di capitale di rischio, oltre che per contrastare la tendenza, peraltro globale, alla revoca volontaria dalle quotazioni (delisting), serve creare dei fondi misti, cioè a capitale pubblico e privato, la cui missione è quella di diventare anchor investor, cioè investitori pazienti, delle nostre piccole e medie imprese che decideranno di quotarsi.

Ho già espresso alcune perplessità in merito. Ad esempio mi pare che, se esistono aziende-gioiello in cui investire, esistono anche investitori professionali, italiani ed esteri, che già svolgono questa funzione di talent scouting senza che ciò implichi necessariamente il transito da una borsa valori. Esistono cose chiamate club deal e più in generale private equity (ma anche venture capital, nei primi stadi del ciclo di vita aziendale) che svolgono questa funzione. In tali iniziative, la quotazione può essere vista come una delle forme di exit dall’investimento ma non si tratta di necessità né imposizione. Né, soprattutto, di precondizione.

Guarderei anche il lato della potenziale offerta, cioè quello delle imprese medesime, e dei loro gruppi di controllo, che spesso sono di tipo familiare. Siamo sicuri che esista la volontà di quotarsi e, per ciò stesso, assoggettarsi a un regime di adempimenti e informative che, per quanto semplificato e semplificabile, resta oneroso? E che esista la volontà di “portarsi in casa” dei soci di capitale?

Chi mette i soldi?

Dal lato della domanda di simili investimenti, come detto, il governo intende lanciare dei fondi di fondi a capitale misto, dove Cassa Depositi e Prestiti metterebbe metà della cifra (mezzo miliardo) e il settore privato il resto. Ma chi sarebbe, questo “settore privato”?

Si è parlato di banche e assicurazioni, le quali in molti casi hanno già in essere iniziative simili, e quindi potrebbero partecipare solo dietro opportuni “incentivi” chiesti ai pubblici poteri. Ad esempio, a titolo puramente indicativo e non esaustivo, di piantarla di fare strani discorsi sulla tassazione degli extraprofitti.

E poi, tra gli istituzionali, ci sono le casse previdenziali degli ordini professionali, che da tempo chiedono a ogni esecutivo pro tempore un alleggerimento della fiscalità, visto che subiscono una doppia tassazione: al 26 per cento sui rendimenti maturati e poi, con aliquota inferiore, sulle prestazioni erogate. Tassazione del maturato che falcidia il montante e rappresenta un caso unico in Europa.

Ovvio che ogni richiesta del genere, in funzione di do ut des, costerebbe molto a qualsiasi esecutivo italiano, alle prese con una crisi fiscale conclamata. Così come costerebbero le richieste di agevolazioni fiscali per sottoscrivere il nuovo fondo di fondi, un po’ come accadde coi Piani Individuali di risparmio, che spesso si sono risolti nella cattura del beneficio fiscale da parte degli intermediari.

Sul Messaggero di domenica 4 agosto c’è una interessante intervista ad Alberto Oliveti, presidente della fondazione Enpam, che paga pensioni e welfare a medici e odontoiatri italiani e ha un patrimonio in gestione di 27 miliardi. Ma Oliveti è anche presidente di ADEPP, l’associazione di tutte le casse ordinistiche, che ha diciotto enti associati, per 1,6 milioni di professionisti iscritti e 114 miliardi di patrimonio.

Oliveti era già al timone di queste realtà quando fece il gran rifiuto su quella follia chiamata Atlante, di cui vi ho dato conto un’era geologica addietro. Oggi commenta al Messaggero questo fondo di fondi. Premetto che non è un déjà-vu, ma le sue argomentazioni sono molto robuste.

Enpam avrebbe già dato

Parteciperete a questo fondo?, viene chiesto a Oliveti. Che risponde a nome di Enpam precisando che il suo ente ha già sottoscritto un mandato di gestione molto simile con una società di gestione del risparmio italiana, per mezzo miliardo di euro, finalizzato a investimenti in piccole e medie imprese italiane. Al che, non posso esimermi dal dirvi che ve lo avevo detto: le possibilità di investire c’erano già, e in molti le stanno cogliendo. Ma andiamo avanti.

 

Siete investiti in Italia?, è la domanda dell’intervistatore. A cui segue una risposta molto dettagliata e robustamente affermativa. Dei 27,2 miliardi di euro di patrimonio Enpam,

Fatti salvi 400 milioni di liquidità di tesoreria per pagare le pensioni e si noti bene che stanno depositati in banca in Italia, abbiamo 6,5 miliardi di beni reali, cioè immobili ed infrastrutture, al 90% in Italia, rispettivamente 5,7 miliardi in immobiliare tramite sgr e il resto in infrastrutture come F2i.
[…] Abbiamo 20,3 miliardi di beni finanziari investiti e da reinvestire per pagare prestazioni previdenziali: di questi, 14 miliardi sono obbligazioni governative e corporate, di cui 4 miliardi sono in Italia.
[…] Su 4 miliardi di azionario, quasi 2 miliardi sono impegnati in Eni, Enel, Intesa Sanpaolo, Bpm, Mediobanca, Poste, Bonifiche Ferraresi, GHC [Garofalo Health Care, ndPh.]. Poi nel private market (private equity, private debt e venture capital) su 3 miliardi abbondanti di investimenti fatti, in Italia ne abbiamo 1 miliardo come FSI, Nextalia.

Se conto correttamente, tra liquido e illiquido, Enpam ha messo in Italia 12-13 miliardi di patrimonio su 27. Circa la metà. Se a qualcuno sembra renitenza alla leva degli investimenti patriottici, si faccia avanti e ci facciamo due risate. E infatti Oliveti precisa, grassetto mio:

Siamo ben oltre il peso percentuale ed il merito di credito del Paese nel mondo. Ci prendiamo questo rischio perché sosteniamo fortemente la nostra economia reale. In più pagando all’Erario circa 200 milioni all’anno di tassazione sui rendimenti degli investimenti, cosa che i nostri vicini europei non fanno.

Ineccepibile, non trovate? Dice Oliveti: Noi stiamo già dando, e molto. Altri, meno o assai meno. Ma parliamone, in un’ottica di scambio con la fiscalità. Premesso che da sempre ritengo che la tassazione del risparmio previdenziale ordinistico sia gravemente penalizzante per gli aderenti, ribadisco che il paese è in crisi fiscale, e che dagli arruolabili al fondo di fondi dal capitale paziente potrebbero arrivare richieste di scambio non esattamente idonee a tutelare l’interesse nazionale. Mi sovviene l’episodio dei capitani coraggiosi che “salvarono” Alitalia (anzi, AirOne), e poi finì come finì.

Si dirà che mettere assieme mezzo miliardo tra banche, assicurazioni e casse professionali non dovrebbe poi essere proibitivo. Ma il denaro ha valore e un costo opportunità, per tutti. La diversificazione geografica pure, malgrado la grancassa propagandistica degli ultimi anni abbia tentato di elevarla a disvalore.

Risparmiatori consapevoli cercansi

Ma, una volta assemblato il capitale di partenza, questo miliardo, va da sé che si attenderanno i risparmiatori retail, per far decollare tali fondi. Il risparmio retail dovrà essere sufficientemente maturo da comprendere il concetto di diversificazione del rischio, mettendo parte delle sue uova nell’azionario piccole e medie imprese, che è più rischioso di quello delle grandi imprese. Qualcuno pensa di agevolare fiscalmente i piccoli risparmiatori, come fatto per i PIR, ma i soldi non ci sono. In un universo alternativo, sarebbe opportuno ridurre la tassazione per chiunque investa a lungo termine.

E comunque servirà capire se questo fondo va inteso come un “normale” prodotto azionario, cioè riferito ad aziende che, sia pure in fase di crescita, non sono delle startup, o meno. Leggo di ipotesi di inserire in tale fondo anche titoli di stato, per poter distribuire proventi periodici ai sottoscrittori. Sono perplesso: ci saranno più linee di investimento, ma attenzione a non creare degli ircocervi strabici.

Io mantengo pertanto tutte le mie riserve su uno strumento del genere. Nel senso che, per quanto mi sforzi, non riesco a considerarlo qualcosa di effettivamente mancante nel panorama degli strumenti di investimento. Inoltre, come scritto sopra, ho dei dubbi anche sul lato delle motivazioni a quotarsi da parte delle imprese. Se i fatti mi convinceranno del contrario, sarò ben felice di ammetterlo e fare ammenda. Offrirò il mio esile petto a questo proiettile d’argento, in pratica.

Per ora, vedo solo un inquietante parallelismo con le sciocchezze di chi per anni ha detto che i soldi sui conti correnti degli italiani erano “improduttivi” e che in qualche modo andavano incanalati nella leggendaria “economia reale”. Ora vorrei evitare di dover leggere e sentire che “se non portiamo in quotazione le nostre PMI, il paese andrà incontro alla deindustrializzazione”. Perché di non sequitur si può anche morire.

P.S. Lasciatemi anche dire che trovo singolare che, tra le motivazioni per la creazione di questo fondo per la quotazione delle PMI, vi sia anche “sostenere la patrimonializzazione delle imprese italiane”, visto che il governo Meloni ha razziato 4 miliardi annui di ACE (aiuto alla crescita economica), che rispondevano a questa finalità e avrebbero potuto continuare a farlo, magari focalizzando meglio la platea delle aziende beneficiarie. Ma tant’è.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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