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Oltre il cinema, ovvero del cinema che rappresenta se stesso

Esiste un cospicuo numero di cineasti che non hanno saputo resistere alla tentazione di scrivere e/o rappresentare sul grande schermo storie che hanno per ambientazione il set cinematografico o situazioni che con il cinema e con la realizzazione di un film sono strettamente imparentate. Queste storie diventate film fanno parte del cinema che a noi piace definire metacinema perché narrano e analizzano spassionatamente il cinema stesso sotto i più diversi profili.

Non vogliamo, qui, parlare di quei casi di pura e semplice autoreferenzialità del cinema nei confronti di se stesso o dei tanti esempi di autocelebrazione; si vuole invece fare riferimento da una parte a una curiosa forma di voyeurismo critico che spinge l’autore di cinema ad osservare con occhio più attento l’oggetto della propria attività artistico professionale e l’ambiente talora spietato all’interno del quale gli antagonismi di ogni giorno quasi mai prevedono esclusione di colpi - su quest’ultimo punto suggerisco la visione di Il regista di matrimoni, grande film di Marco Bellocchio uscito nel 2006 - , quello delle produzioni cinematografiche appunto, in cui egli si muove quotidianamente (tutto ciò, forse, anche per capire meglio e poi raccontare al pubblico che frequenta le sale cinematografiche i complessi meccanismi e le vicende umane che stanno dietro la lavorazione di un film).

D’altro canto, a parte l’aspetto appena richiamato, se si vuole, puramente descrittivo, che riguarda l’esteriorità del dorato mondo dello spettacolo e del ‘dietro le quinte’ più immediato, si riscontra che le tematiche su cui può essere basato un film sul cinema possono essere le più svariate: si va dalla messa in scena delle feroci condizioni lavorative che è costretto a subire chi opera spesso in modo precario all’interno del mondo del cinema agli aspetti deteriori del divismo, dalla insensibile spregiudicatezza delle politiche aziendali poste in essere dall’industria cinematografica alle tematiche umane più intime che possono riguardare la problematica gestione della popolarità che nel corso degli anni viene accumulata da attori e attrici del cinema e ai temporanei, fisiologici cali di creatività che spesso, di fatto, colpiscono i professionisti della settima arte (registi, sceneggiatori, soggettisti, etc.) che quando iniziano a perdere sul piano della prolificità artistica possono ritrovarsi a dover attraversare momenti critici anche sotto il profilo umano ed esistenziale.  

Uno dei capolavori del cinema felliniano, ‘La dolce vita’ (1960), è anch’esso, a modo suo, un film sul cinema perché mostra ansie, malumori, noia, vuoto esistenziale e quel modo di fare un po’ sbruffone o superficiale che a torto o a ragione viene di sovente attribuito a molti artisti (nell’opera citata, tra l’altro, e certamente non a caso, il descritto modus vivendi si registra in un momento di crescente benessere economico per il nostro Paese) e anzi, ancora più in generale, a molti di coloro che si limitano a frequentare gli ambienti artistici e aristocratici della Roma di fine anni Cinquanta ma anche quelli dei giorni nostri, dovunque si trovino.

Tra i film sul cinema non mancano, naturalmente, le fiction che ricostruiscono la biografia di grandi nomi della cinematografia (Chaplin, regia di Richard Attenborough, 1992) e opere documentarie monografiche ugualmente dedicate ad argomenti o a personaggi particolari (tra gli altri: Come inguaiammo il cinema italiano - La vera storia di Franco e Ciccio, regia di Daniele Ciprì e Franco Maresco, 2004; Il meglio è passato, regia di Giancarlo Rolandi e Steve Della Casa, 2010, documentario su Ennio Flaiano, grande scrittore di cinema co-autore, tra l’altro, di numerose opere felliniane).

Eccovi nove titoli che possono essere fatti rientrare nell’ambito della peculiare tipologia cinematografica di cui parliamo, nove opere che hanno ad oggetto le più diverse sfaccettature di quella affascinantissima, particolare realtà artistico – economico – professionale che è il cinema.

Sunset Boulevard, regia di Billy Wilder (1950); Un film che, ‘a differenza di molti altri, più che sul cinema è un film sulla capacità distruttiva che nel cinema è connaturata al suo modo di essere’ [Di Giammatteo, 1995]. Una anziana ex diva intraprende una relazione con uno scrittore di cinema al quale chiede di scrivere un copione per se stessa. Per l’attempata attrice lo scopo sarebbe quello di reintrodursi e tornare a recitare nell’ambito cinematografico. Finale patetico quanto tragico per questo film classicamente hollywoodiano che può disporre di un cast veramente eccezionale (Gloria Swanson nella parte dell’attrice, Erich Von Stroheim, Cecil B. De Mille e Buster Keaton - gli ultimi due nella parte di se stessi - , tra gli altri).  

Bellissima, regia di Luchino Visconti (1951); Un’opera sul cinematografo che rimane ben lontano dalla vita reale di una popolana (Anna Magnani). Maddalena vorrebbe vedere sua figlia intraprendere la strada della recitazione ed inserirsi nel mondo luccicante dello spettacolo nella speranza che la stessa possa un giorno godere di una sorte migliore rispetto a quella toccata ai suoi genitori; per raggiungere lo scopo si fa truffare da un giovanotto che le promette di impegnarsi presso sue conoscenze al fine di far sostenere il provino alla piccola Maria. Un film sul cinema come falso mito, su cui, tra l’altro, è stato detto che ‘lungi dall’essere una condanna “neorealista” del cinema non realistico è una polemica frontale contro un cinema non più riformabile, non più modificabile, non più rifondabile’ [Lino Miccichè citato in (a cura di) F.Di Giammatteo, Dizionario del Cinema italiano, Roma 1995] e, si potrebbe quindi aggiungere, condannato a essere un’espressione artistica elitaria. Bellissima nasce dalla collaborazione di Visconti con Cesare Zavattini (che ne scrisse il soggetto), Suso Cecchi D’Amico e Francesco Rosi, che insieme a lui ne firmarono la sceneggiatura. 

Io la conoscevo bene, regia di Antonio Pietrangeli (1965); costituisce, rispetto al felliniano La dolce vita, l’altra faccia della medaglia, quella più crudele e tragica che rappresenta il cinismo e la disumanizzazione estrema, elementi piuttosto diffusi, il film lo mostra molto chiaramente, anche all’interno degli ambienti cinematografici. Nel film viene mostrato quel meccanismo micidiale che per un verso attira diabolicamente verso di se molti aspiranti attrici e attori, per altro verso stritola, fortunatamente senza sempre raggiungere i tragici risultati mostrati dal lungometraggio, i più deboli tra essi (nel caso dell’opera in questione l’aspirante star del grande schermo e l’attore fallito, rispettivamente interpretati, nel film, da Stefania Sandrelli e Ugo Tognazzi).

Appunti per un’Orestiade africana, regia di Pier Paolo Pasolini (1970); non è proprio un film sul cinema: gli Appunti per un’Orestiade africana costituiscono piuttosto la testimonianza di un metodo, una serie di annotazioni filmiche finalizzate alla trasposizione cinematografica dell’Orestea di Eschilo; riprese e commenti costituiscono il canovaccio, un promemoria da sviluppare cui si aggiunge, nell’ultima parte del film, la rappresentazione di una jam session cui partecipano i jazzisti Gato Barbieri e Don Moye. Un finale dove tra l’altro viene resa manifesta la potenza espressiva e la capacità della musica di farsi portatrice di messaggi, emozioni e suggestioni, anche al cinema.

Effetto notte, regia di Francois Truffaut (1973); il film sul cinema per eccellenza, incontenibile atto d’amore di uno dei registi che ha nobilitato l’arte cinematografica mondiale nei confronti del proprio ‘mestiere’. Nel film si intrecciano continuamente vita reale, finzione, gesti, situazioni e operazioni quotidiane che vengono poste in essere sul set da coloro che lavorano per la realizzazione di un film. Truffaut rappresenta sapientemente tutto ciò e mescola didattica cinematografica e amore per la regia in un’opera di culto dove non mancano anche significativi frammenti autobiografici riguardanti l’autore.

8 e ½, regia di Federico Fellini (1963); Guido (Marcello Mastroianni) è un regista che attraversa un periodo di scarsa energia creativa, di debole ispirazione e di profonda insoddisfazione artistica. Non riesce neppure a terminare un film cui sta lavorando da tempo. Film pluripremiato (tra l’altro, al Festival di Mosca), Otto e mezzo è un’opera che ha molto di autobiografico. Lungometraggio sull’artista, sulle sue angosce, sulle sue ossessioni e dubbi esistenziali, sintetizza magnificamente i temi classici della poetica felliniana: il ricordo, la vita, la morte, finzione e realtà indistinguibilmente presenti, tra l’altro, in uno dei più grandi (e più rappresentati dalla sua cinematografia) amori di Fellini: il circo. La storia su cui il film è basato è di Fellini e Flaiano, che insieme a Pinelli e Brunello Rondi firmano anche la sceneggiatura.

Sono fotogenico, Regia di Dino Risi (1980); (dis)avventure di un giovanotto di provincia (Renato Pozzetto) che si reca a Roma con l’obiettivo dichiarato di far carriera come attore cinematografico. Da uno dei padri della commedia all’italiana, qui in uno dei suoi film minori, una storia costellata da situazioni piuttosto banali ciascuna delle quali, in qualche modo, concorre a spiegare senza troppe esagerazioni, i tormenti di chi desidera trovare impiego, anche come semplice comparsa, nel mondo del cinema. Le curiose quanto (purtroppo) fugaci apparizioni di Mario Monicelli e di Vittorio Gassman valgono, da sole, tutto il film. 

Intervista, regia di Federico Fellini (1987); a tutti gli effetti un’opera documentaria sul racconto di come nasce un film di Fellini fatto a beneficio di una troupe di giornalisti giapponesi che intervista, appunto, il Maestro riminese. Non solo: Intervista costituisce anche, per Fellini, un ulteriore pretesto per mostrare ancora una volta tutti quegli elementi che hanno caratterizzato la sua precedente cinematografia con l’aggiunta della rappresentazione di gesti, situazioni e banali criticità quotidiane che possono verificarsi all’interno di un set cinematografico. Scene e situazioni surreali, il sogno, il ricordo dei tempi andati, etc. sono inoltre e come al solito accompagnati da una congrua dose di intelligente ironia. 

Whisky mit wodka, regia di Andreas Dresen (2009). Da uno dei più intelligenti registi della Germania riunificata, un film allo stesso tempo esilarante e ironico basato su circostanze accadute realmente ai tempi della RDT sul set di un film di Kurt Maetzig, uno tra i maggiori cineasti tedeschi di tutti i tempi di cui, peraltro, Dresen è stato assistente. 

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