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Legge anti fake news: la credulità non si combatte per legge | Perché la norma potrebbe essere liberticida

“C’erano una volta le fake news”, potrebbe essere l’incipit una favola moderna, ambientata nel Bel Paese, ove tutto viene normato per illudersi che tutto sia sotto controllo: pure le c.d. bufale in rete. Il relativo disegno di legge non verrà approvato in questa legislatura, ma non importa: hanno detto che resterà predisposto per quella successiva. Certo, poi hanno fatto marcia indietro, al momento non sono più certi che l’articolato serva davvero e così il disegno di legge, già pronto, non è stato ancora depositato. Sarà una fake news anch’esso?

di Vitalba Azzollini

In attesa di scoprirlo, può essere utile qualche cenno di commento, anche perché – com’è noto – in Italia certe proposte normative vengono periodicamente riciclate, più o meno uguali a se stesse. La legge si ispira – anzi, è sostanzialmente uguale – a un’altra approvata in Germania di recente. Proponenti e loro sostenitori vantano questa circostanza a supporto della bontà del testo: il provincialismo nostrano induce a dotare di una sorta di presunzione di efficacia quanto fatto altrove, anche prima che l’efficacia sia stata dimostrata.

Innanzi tutto, quali sono le fake news da contrastare, attuale nemico dichiarato (vedi alla voce #Leopolda8)? Non citerò gli autori che negli ultimi tempi si sono adoperati in utili sforzi definitori – falsità costruite ad arte da gruppi di potere, notizie di dubbia autenticità che circolano in rete suffragate dalla condivisione tra utenti (c.d. vox populi), notizie che ledono interessi individuali o collettivi ecc. – limitandomi alla qualificazione che ne ha dato Renzi: “schifezze in rete”. La non proprio puntuale delimitazione del fenomeno gli consentirà – nel report che ha annunciato di voler produrre quindicinalmente – di stigmatizzare tutto e il suo contrario, ma pazienza: l’importante era arrivare primo a intestarsi la battaglia, apparire paladino di ciò che è buono giusto e, dunque, immune da fake news automaticamente. Ma andiamo oltre, e torniamo al disegno di legge.

“L’obiettivo del provvedimento è quello di limitare fortemente la pubblicazione e la circolazione di contenuti che configurino delitti contro la persona e alcune altre gravi fattispecie di reato” (istigazione a delinquere, propaganda all’odio razziale, diffamazione, minaccia, stalking ecc.), spiega la relazione di accompagnamento. Allo scopo di “contrastare la pubblicazione di contenuti illeciti e di diminuire sensibilmente l’entità e la diffusione dei danni provocati da tali crimini”, i fornitori di servizi di social network con più di un milione di utenti verranno gravati di obblighi tesi a “responsabilizzarli”. Innanzitutto, essi dovranno costituire “una procedura facilmente individuabile, direttamente accessibile e permanentemente disponibile” per la ricezione e gestione dei reclami; saranno tenuti alla rimozione o al blocco all’accesso di contenuti “manifestamente illeciti” entro 24 ore dal reclamo o entro sette giorni in caso di illiceità non manifesta (salvo alcune eccezioni circa i termini); dovranno assicurare il monitoraggio sulla gestione dei reclami attraverso controlli mensili; potranno affidare la gestione dei reclami stessi a organismi di autoregolamentazione (riconosciuti dal MEF); se riceveranno oltre un certo numero di reclami saranno obbligati a un dettagliato rapporto semestrale sulla gestione, da pubblicare in Gazzetta Ufficiale, oltre che sul proprio sito web; infine, saranno sottoposti a una “rigorosa disciplina sanzionatoria”, rischiando multe fino a 5 milioni di euro.

Tutto a posto, dunque, la battaglia contro le “schifezze in rete” può iniziare? Non proprio, perché questa ipotesi di articolato, lungi dal risolvere il problema, ne potrebbe creare pure altri: come anticipato, se ne farà solo qualche cenno. Il primo e più evidente è la privatizzazione della giustizia: soggetti diversi da un’autorità giurisdizionale, come visto, sarebbero investiti della valutazione circa la illiceità dei contenuti pubblicati sulle piattaforme che amministrano. In particolare, ai gestori di social verrebbe demandata la tempestiva decisione circa il bilanciamento fra libertà di manifestazione del pensiero e altri diritti tutelati dalla legge: l’incompatibilità di questa previsione con i principi dell’ordinamento è più che un fondato sospetto.

C’è poi un altro impatto molto rilevante che la normativa in discorso risulta idonea a produrre. Il giudizio di manifesta illiceità, da operare nei ristretti termini sopra indicati, potrebbe indurre i fornitori di servizi di social network – prevedibilmente destinatari di un imponente numero di reclami – a bloccare i contenuti oggetto di segnalazione senza effettuare un esame caso per caso: il timore di incorrere nelle pesanti sanzioni disposte dalla legge porterebbe per default alla scelta più tutelante per chi sia investito di un compito non solo gravoso, ma da espletare rapidamente.

Da ciò potrebbe scaturire una generale compressione della libertà di espressione e, quindi, una limitazione nella circolazione di informazioni. E se si considera il fatto che la bozza di legge non prevede alcuna forma di tutela per gli utenti i cui contenuti siano stati bloccati, il pericolo è ancor più accentuato. Infine, la disciplina anti fake news, se pure potrà assicurarne la trasparenza della gestione, avrà costi di implementazione molto alti, per lo Stato e ancor più per i gestori di piattaforme, a fronte di una fattispecie non delimitata puntualmente: la legge non definisce le fake news, ma i reati in cui tramite fake news si può incorrere, dunque il “veicolo” resta vago.

Qual è la conclusione? Forse sarebbe meglio rimanere circondati da falsità variamente declinate che vedersi imposta la verità rivelata da fornitori di servizi di social network (in alternativa, da algoritmi o organismi specializzati)? Non è troppo alto “il rischio che le scelte sulle configurazioni dei valori sociali, etici o politici, siano fatte dai programmatori più che dagli individui e dalle istituzioni che eventualmente li rappresentano” (U. Pagallo)?

E se l’incipit della fiaba da cui si sono prese le mosse fosse un altro? “C’era una volta un posto chiamato free market place of ideas”, ove notizie infondate, ingannevoli o tendenziose – le c.d. fake news, in sostanza – potevano circolare liberamente, senza che nessuno se ne preoccupasse troppo. Infatti, un’informazione professionale e qualificata, distinguibile da ogni altra fonte non verificata, orientava l’individuo nella consapevole formazione delle sue opinioni, acuendone senso critico e capacità di discernimento. Anzi, proprio la circolazione anche dell’informazione di cattiva qualità consentiva che quella di miglior livello risaltasse con maggiore chiarezza, poiché inidonea a far presa su una comunità consapevole e informata. Il motto era: “if there be time to expose through discussion the falsehood and fallacies, to avert the evil by the processes of education, the remedy to be applied is more speech, not enforced silence. Così alla fine il “bene” trionfava sempre, come in ogni favola che si rispetti.

 

C’era una volta, anzi, proprio così non è mai stato e forse è una fake news anche questa: perché fenomeni come la c.d. social cascade, la c.d. group polarization o la c.d. collective credulity non nascono solo di recente. Il “pensiero critico”, come molte altre cose, non lo si fa per legge. Iniziare a coltivare l’istruzione, e con essa il dubbio, potrebbe essere un buon inizio.

P.S. Il 13 novembre scorso la Commissione UE, nell’ambito di un action plan più ampio di contrasto alle fake news, ha aperto una consultazione pubblica on line,  che si concluderà il 23 febbraio 2018. Chissà se i paladini nostrani della Verità ne hanno tenuto conto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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