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Noi non siamo brigatisti da social network

L’attentato a Maurizio Belpietro ha un mandante morale digitale, oltre a quelli – arcinoti – in carne e ossa. E’ colpa di Internet, di Facebook. I luoghi «dove non c’è limite all’insulto, non c’è limite alla diffamazione, non c’è un confine fra il grottesco, il cattivo gusto e il rischio vero», scrive oggi il vicedirettore di Libero Franco Bechis. Dove certo, ci sono i gruppi di provocatori di professione (i “troll”), innocui, ma anche i «molto meno» innocui «gruppi organizzati: “il popolo di Grillo”, “il popolo Viola”». Insomma, «i nuovi movimenti politici che nascono sulla rete o su Facebook», le cui discussioni «non sono così diversi da quelli che leggevamo», prosegue Bechis, «nei tazebao e nei foglietti della sinistra estraparlamentare negli anni in cui questa confinava e diveniva spesso serbatoio delle Brigate Rosse» e dove si respira «anche e soprattutto l’odio». Segue pezzo a rinforzo che snocciola commenti che ipotizzano l’attentato sia una sceneggiata provenienti dal sito di Grillo come da quello di Generazione Italia. La firma è quella di Marco Gorra, il giornalista che il 24 dicembre 2009 aveva definito la «innata cialtronaggine» il «minimo comune denominatore del popolo del web». Quell’ «agglomerato indistinto di radicalismo, qualunquismo, settarismo e massimalismo» che avrebbe portato allo «sfacelo» l’opinione pubblica. Non la politica che bestemmia, impreca, millanta milioni di fucili pronti a sparare e spreca il termine “totalitarismo” con cadenza giornaliera. Non il giornalismo che trasforma 55 metri quadri a Montecarlo nel centro del mondo. La colpa è di Internet.

Ma torniamo a oggi. La rete è «una fabbrica dell’odio», rincara Stefano Zurlo sul Giornale: «da un sito all’altra la catena di montaggio della violenza è in piena produzione». «Il linguaggio echeggia a distanza quello degli anni Settanta», argomenta Zurlo, in sintonia con Bechis, «il web è magma che distrugge», un magma che «fa paura». Insomma, «dal volantino ciclostilato al post. Trent’anni dopo il passato, il peggior passato bussa in redazione». Come se a minacciare l’incolumità del direttore Belpietro fosse stato direttamente un aggiornamento di status.

Naturalmente non poteva mancare il gruppo-capo espiatorio. In passato c’è stato chi ha chiesto di bruciare vivo Maurizio Gasparri, chi di uccidere Marco Travaglio, chi altri – ed erano di certo in maggioranza – di far fuori Silvio Berlusconi, possibilmente in modo truce (uno chiedeva esplicitamente “badilate” oppure “lapidazione”). Oggi tocca a “Kill Belpietro“, di cui Libero-News scrive: «al momento ha solo 47 membri ma sono in aumento e in questo clima di tensione, non c’è da dormire sonni tranquilli».

Così come non poteva mancare l’allarme del mondo politico. E così Maurizio Gasparri, a l’Ultima Parola, teorizza connessioni tra la violenza verbale di Grillo e Di Pietro, gli insulti in rete, il clima d’odio e le intenzioni dell’attentatore. Viviana Beccalossi, deputato del Pdl, esplicita: «E’ evidente a tutti che quanto accaduto sia figlio dei toni e dei metodi che, soprattutto in questi ultimi mesi, stanno caratterizzando lo scontro, e non il confronto, politico nazionale. E’ sufficiente navigare sui blog o su Facebook per scoprire, ad esempio, gruppi con centinaia di iscritti, intitolati “Io odio Belpietro”. E l’odio non può che generare quanto accaduto ieri sera a Milano». Da ultimo, come sempre avviene in questi casi, arriva anche il richiamo del ministro dell’Interno Roberto Maroni – non altrettanto solerte nel redarguire i loquaci compagni di partito nei loro deliri verbali – che ribadisce: «E’ necessario abbassare i toni perché certe accuse, che si leggono magari su alcuni siti internet, possono dare a qualche mente malata lo spunto per fare queste cose».

Insomma, l’ipotesi è semplice: siccome le parole sono pietre, e le pietre vengono scagliate in rete, la rete è il mandante morale – insieme agli irresponsabili che in parlamento o nelle redazioni soffiano sul fuoco – di qualunque episodio violento accada nel Paese. Dall’aggressione a Tartaglia all’attentato a Belpietro, passando per i suicidi di adolescenti, il diffondersi della sifilide, il moltiplicarsi di ansie e attacchi di panico, il rimbecillimento dei ragazzi e chi più ne ha ne metta. Il tutto viene di solito riassunto con una espressione ormai familiare: è il “clima d’odio“.

Ma siamo sicuri che questa ipotesi regga a uno scrutinio più attento dei fatti? Io non lo sono affatto. Prima di tutto per ragioni statistiche: anche limitandosi a Facebook, gli iscritti sono oltre 16 milioni solo in Italia. Un gruppo di 47 membri quale reale grado di rappresentatività ha del fantomatico “popolo del web”? Nessuno. La stragrande maggioranza degli utenti non ne conosce nemmeno l’esistenza. Bel modo di diffondere l’odio! Altro che catena di montaggio, insomma, il ciclostilato funziona molto meglio. E poi anche se i commenti sanguinari fossero qualche migliaio – probabilmente lo sono – ciò non giustificherebbe alcuna delle conclusioni tirate dai giornalisti e dai politici sopra menzionati.

In secondo luogo, siamo proprio sicuri che esista un “popolo del web”, più cattivo e violento di quello che circola per le strade di tutta Italia? Non sono forse lo stesso popolo? A meno che qualcosa di intrinseco alla rete, qualcosa di necessario e specifico al mezzo “internet”, non faccia sì che un italiano su due quando accende il computer riponga l’abito dell’agnellino e indossi quello del lupo famelico. E che cosa potrebbe essere questo quid? Nessuno ce lo ha mai detto, nemmeno il Bechis o lo Zurlo di turno. L’anonimato, forse? Quello che secondo Gabriella Carlucci del Pdl avrebbe trasformato i social media in «pericolose armi in mano a pochi delinquenti che incitano alla violenza, all’odio sociale, alla sovversione»? Peccato che quello dell’irresponsabilità totale, dell’impunibilità in rete sia in larga parte un mito alimentato da ignoranza e malafede. Bechis e colleghi vadano a chiedere al diciannovenne creatore del gruppo “Giochiamo al tiro al bersaglio con i bambini down”, che – pur se coperto dall’anonimato – si è visto apparire la postale sull’uscio di casa.

Tolto l’anonimato, che resta? Io un’idea ce l’ho, ma smentisce l’ipotesi di partenza. La rete, semplicemente, fornisce per la prima volta nella storia una memoria collettiva pietrificata di ciò che pensiamo distrattamente. Una sorta di bar del paese grande quanto il Paese. Dove si legge di tutto, dai corteggiamenti alle elucubrazioni etiliche, dalle frasi nobili agli insulti. Se ciò fosse vero, significherebbe che Internet, molto prima che un’arma, è uno straordinario mezzo di trasparenza e di conoscenza, per chi osservi la realtà sociale. Perché ce la presenta tutta insieme, senza separare gretto e sublime, intelligenza e stupidità. E, come tale, dovrebbe essere concepito come uno strumento di riflessione, non di giudizio.

Perché tutto questo smentisce l’idea che sia la rete a renderci cattivi, violenti, costringendoci a respirare le zaffate di quelli che chiamo i «brigatisti da social network»? Perché indica che quell’odio, se di vero odio si può parlare in tutti i casi, non è figlio della rete, ma di chi la utilizza. Che sia parte del Paese reale, non di quello virtuale. Un odio che, tuttavia, desta stupori emergenziali soltanto quando si guardi alla parte (la porzione del Web sotto i riflettori mediatici) e non al tutto (i milioni di italiani che amano, odiano, si esprimono, litigano). In altre parole, è fisiologico che a molti un personaggio come Belpietro susciti antipatie, anche fortissime. Fisiologico che in un settore limitato della popolazione, di cui magari un suo sottoinsieme ancora incapace di valutare le conseguenze di quanto scrive su Facebook, queste antipatie diventino odio puro, fino al limite di giustificare le gesta di un pazzo. Ma che c’entra internet con tutto questo? A leggere certi commenti sui giornali di oggi sembra che sia stato Facebook in persona a presentarsi su quel pianerottolo con intenzioni omicide!

Non dare le giuste proporzioni al problema è pericoloso. Perché l’idea di una emergenza-odio, in particolare su Internet, potrebbe finire per legittimare leggi liberticide. Come quelle che sono state proposte negli ultimi anni, e che racconto nel mio libro Ti odio su Facebook, come sconfiggere il mito dei “brigatisti” da social network prima che imbavagli la rete. In cui mostro, spero abbastanza chiaramente, che a ogni polemica scaturita dal reperimento mediatico di un qualche “gruppo choc” abbia fatto seguito la presentazione di disegni di legge – a un certo punto si era parlato addirittura di un decreto legge urgente per inserire filtri ai contenuti pubblicabili online – di chiara ispirazione censoria della libertà di espressione su internet. La paura, specie quella manipolata ad arte, genera bisogno di sicurezza: ecco perché questa disinformazione è pericolosa. Ecco perché non bisogna stancarsi di ribadire il concetto: l’urgenza non è condannare Internet o limitare la possibilità di esprimersi su Internet. Anche da queste parti vale la legge, caro Bechis. L’urgenza è semmai difendere la nostra libertà di dissentire rispetto a questo mare di incompetenza, prima che si tramuti in una ondata di censura.

Commenti all'articolo

  • Di Simone (---.---.---.115) 3 ottobre 2010 12:29

    Ogni evento va giudicato, credo, per gli effetti che produce. Ho nutrito dubbi fin da subito su questa azione terrosistica. Ho letto il tuo articolo e me ne sono convinto ancora di più. Dove sta portando questo episodio? Se è vero quanto dici pare porti al coretto dei politicanti contro internet. Questo può rispondere a due esigenze del potere: 1) nell’immediato screditare i partiti/movimenti che maggiormente traggono la loro linfa vitale da internet (Grillo/Di Pietro). 2) screditare davanti all’opinione pubblica un mezzo sul quale loro non hanno il controllo. A questo pare debba servire la storiella di Belpietro.

  • Di Daniel di Schuler (---.---.---.33) 4 ottobre 2010 02:41
    Daniel di Schuler

    Condivido ogni parola.

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