No Tav: perché “ai poliziotti si danno fiori”
Il carabiniere etichettato come “pecorella” dice a un quotidiano nazionale che un nome ce l’ha.
“Scrivi che mi chiamo F. Sono figlio di un operaio cresciuto in un paese di operai. Ho un fratello e una licenza liceale scientifica. Avevo deciso di mettermi subito a lavorare. Fare il soldato è un mestiere. Così quando sono uscito dal liceo ho firmato da volontario per quattro anni. Non ho partecipato alle missioni all’estero perché dopo due anni dall’arruolamento ho deciso di diventare carabiniere. Pensavo fosse un passo professionale importante. E quel lavoro mi affascinava. Così, tre anni fa, conclusa la ferma con l’esercito, sono arrivato al battaglione da cui non mi sono più mosso e dove sto bene”.
Stare bene, avere un lavoro, 1.300 euro di paga base che diventano 1.500 con le indennità di trasferta per sfuggire magari non più “ai bassi sulle cloache” come scriveva Pasolini nella famosa ode Il Pci ai giovani! (ripresa per l’ennesima occasione dalle penne forcaiol-manipolatorie e rievocata con migliore esegesi anche da quella intellettuale di Sofri) ma sicuramente dai “grandi caseggiati popolari” o, nel caso di F. originario della provincia oristanese, “dalla casupola con la salvia rossa”.
Tutto per le “preziose mille lire” con cui lo Stato compera, ancor meglio in tempo di crisi, le vite di chi viene da “periferie contadine o urbane che siano”. Vestendo F. e colleghi se non “come pagliacci con stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo” coi moderni elmi da Fahrenheit 451 esecutore di un Ordine deciso da altri.
Eppure egualmente “senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)”. Profetico, come altri scritti, perché il sistema di potere (il Palazzo, diceva lui) in fondo non cambia, ripete secolari cliché mettendo il popolo contro. Comperando la vita di alcuni suoi figli per necessità e conferendogli convinzione che quello sia un lavoro come un altro, produttivo ed efficiente anche quando è costretto a rompere le teste dei pescatori, proprio sotto al Palazzo, mentre essi protestano contro il carocarburante più caro d’Europa. E manganellare gli “ideologici” metalmeccanici stremati dal banditesco marchionnismo. O sparare, fortunatamente non in Val Susa, sugli attivisti dei Centri Sociali come accadeva a Genova nel 2001. Anche in quel caso c’era un carabiniere, forse avrà avuto paura, ma quel “lavoro” spezzava la vita di Carlo Giuliani. E purtroppo la storia italiana degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta è zeppa di questi “incidenti da lavoro”.
Così come ha ricevuto l’encomio (indubbiamente meritato per la fermezza nel non rispondere, magari a manganellate, alla provocazione verbale del manifestante) F. pensa che arruolarsi sia stato un passo importante. Non stiamo a discuterne le scelte e neppure se lo Stato debba avere – e quali e quanti – organi repressivi.
Parliamo di quel che è accaduto nel tempo. Di come a figli del popolo finiti in divisa per uno stipendio sicuro o una convinzione professionale sia stato ordinato un comportamento diverso dall’impassibilità silenziosa mostrata da F. Sia stato comandato addirittura di umiliare e seviziare. Quelli come F. non l’avrebbero probabilmente fatto, altri sì. Qualcuno pentendosene, qualcuno obliando o restando convinto d’essere nel giusto anche quando aveva comportamenti terribili come a Bolzaneto. Oppure quando va a “lavorare” in Afghanistan credendo di partecipare alla missione di “pace” del governo.
“Peggio di tutto, lo stato psicologico in cui sono ridotti”. Forse per questo, per la realtà celata, a F. e “ai poliziotti si danno fiori”.
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