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Narrare la Natura. Ecologia ed emergenze del sacro

di Adolfo Fattori

Qualche anno fa, sulle pagine di “la Repubblica”, Francesca Caferri scriveva:

Marcus Colchester, direttore del Forest People Programme (spiega che) se la conservazione dell'ambiente negli ultimi decenni è diventata un tema di sempre maggiore attualità, così non è stato per i diritti delle popolazioni indigene. La lista di casi di popoli cacciati per far spazio a parchi è lunga: si va dai Masai del Kenia e della Tanzania ai Chetri del Nepal, passando per gli aborigeni dell'Australia e i pigmei del Camerun. Fra i governi e le associazioni ritenute responsabili di questi o simili casi dagli stessi popoli tribali ci sono imputati eccellenti: Conservation International, the Nature Conservancy, la Wildlife Conservation Society e lo stesso Wwf.

E aggiungeva che in questa “battaglia” le organizzazioni ambientaliste si erano ritrovate al loro fianco (immaginiamo con entusiasmo consapevole e responsabile determinazione) finanche le multinazionali dei diamanti ed altre entità che con l’ecologia e l’ambientalismo storicamente c’entrano ben poco, e che anzi il sentire comune percepisce in genere come fra i bersagli privilegiati dei difensori del rispetto della natura.

L’articolo della Caferri è del 2007, quindi di non moltissimo tempo fa. In anni in cui l’ecologia e l’ambientalismo già avevano conquistato il posto di rilievo che hanno nel dibattito internazionale, sulla stampa, sui blog “militanti” – e, naturalmente, nei social network.

Paradossale? Occuparsi dell’ambiente e della sua tutela, della sua intangibilità prima ancora che degli esseri umani che lo abitano?

Forse non più di tanto, se si spingono al limite estremo gli argomenti delle frange più integraliste – e forse più rigorose – del movimento ambientalista e della galassia ecologista.

È un discorso conseguente, se si considera che la premessa (neanche tanto) tacita che presuppone – l’umano è estraneo alla Natura, è come un virus che infetta il pianeta – condivisa da ecologisti estremi e scrittori di fantascienza e ripresa da uno degli avatar del film Matrix, l’agente Smith, braccio armato della Matrice che domina il mondo (ma che è del tutto artificiale) è una di quelle che muovono anche il saggio del sociologo napoletano Antonio Camorrino, La natura è inattuale. Scienza, società e catastrofi nel XXI secolo (2015), seppur non nella forma melodrammatica, emotivamente coinvolgente, tipica dei discorsi dei militanti della purezza ambientale: dal momento in cui il primo ominide ha usato il suo pollice opponibile per impugnare un oggetto (un osso calcinato, un ramo spezzato) e usarlo come protesi, è nata la Cultura e la Natura ha incominciato a ritrarsi, a perdere terreno, per lasciare spazio all’umano, a subire le modifiche architettate dagli umani per costruire appunto “un mondo a misura d’uomo” (Hughes, 2006)). Fino a poter permettere al sociologo Gianfranco Pecchinenda di affermare, nella Prefazione al volume, che, essendo anch’essa una costruzione sociale, di per sé la Natura non esiste.

Intanto, l’inedita alleanza fra araldi della purezza originaria della Terra e ambasciatori della Modernità più sfrenata – quella dell’accumulazione capitalistica – può lasciare a bocca aperta, ma dimostra anche quanto siano intrecciate le visioni del mondo e le prospettive della contemporaneità.

Forse una spiegazione possibile di questo intreccio è nella diffusione a macchia d’olio che la “grande narrazione ecologista” – come la definisce Camorrino – ha avuto nell’ultimo trentennio, colonizzando sempre più quello spazio emotivo, sociale, culturale fino a pochi anni fa occupato dalle grandi narrazioni della Modernità: liberalismo, comunismo e religioni. Perché di “grandi narrazioni” esplicative, di cosmogonie, insomma, che uniscano il singolare dell’umano e l’universale del mondo gli uomini hanno sempre bisogno, per dare senso alla realtà e alla propria vita.

In questo panorama nuovo, in cui la narrazione ecologista tende a diventare l’unica con capacità “egemoniche”, potenzialmente possono trovare spazio tutti, se riescono a declinare le loro retoriche in una forma compatibile e accettabile…

Antonio Camorrino lavora su vari piani, prima di tutto riassumendo come durante lo sviluppo della civiltà occidentale, pur di trovare un senso alla propria esistenza e alla dinamica di vita e morte, sia stata continua la ricerca di spiegazioni che permettessero di costruire universi simbolici plausibili, coerenti, in un interminabile conflitto fra ragione empirica e istanze del sacro, di come quest’ultimo con il procedere della Modernità sembrasse recedere sempre più di fronte all’avanzata della razionalità strumentale, e di come, però, sia stato sempre pronto a riemergere in quelle situazioni di “ansietà escatologica”, come li definisce il sociologo, che si diffondono nei momenti di quelle che Peter Berger e Thomas Luckmann definiscono “crisi di senso soggettive e intersoggettive” (2010).

Ora, l’intero procedere della Modernità è stato segnata dalla dialettica e dalle frizioni fra il mito del progresso – versione laica delle promesse escatologiche del cristianesimo – e le cocenti disillusioni fornite dalla storia, fino a raggiungere il suo culmine nel Novecento, con lo sterminio degli Ebrei, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e altri eventi catastrofici più recenti imputabili a torto o a ragione all’azione umana, alla sua tecnica, alla sua scienza… una continua dialettica fra coinvolgimento e distacco emotivi, come scrive Camorrino citando il tedesco Norbert Elias (1988) – fra sensazione di essere parte di un cosmo avvolto nel sacro tipica delle culture arcaiche, e consapevolezza che la natura sia del tutto altra dall’uomo.

Senso comune e ideologia si sono alleati per fornire spiegazioni che hanno visto proprio nell’azione umana mossa dagli agenti della razionalità strumentale – gli scienziati, i tecnocrati, le grandi multinazionali, il capitalismo – i responsabili del disastro, di una condizione umana connessa a un costante rischio di annichilazione, a causa degli interventi umani a danno dell’equilibrio naturale.  

Insomma, la dimensione in cui sentiamo di vivere è quella, per dirla con Anthony Giddens e Ulrich Beck del rischio, un rischio immanente, ineffabile, quasi metafisico, che sembra rimandare ad un complotto di natura cosmica (per usare il termine coniato dall’antropologa Mary Douglas, sempre citata da Camorrino, come gli altri autori), quindi irriducibile alle nostre capacità di controllo, ordito in stanze del potere evanescenti, lontane, irraggiungibili, ermeticamente chiuse alla gente comune…

Una rappresentazione che ha il calco del sacro, del soprannaturale, anche se apparentemente ridotto alle categorie della razionalità. Una delle strategie per mantenere lontana la paura dell’irruzione del caos, che sentiamo minacciare sempre l’ordine delle nostre vite: la responsabilità dei disastri deve essere di qualcuno. Un ritorno alle logiche del sacro, per cui i disastri, le morti dovevano essere l’effetto dell’atto malvagio o blasfemo di qualcuno che quindi aveva la colpa dell’accaduto. Logica di cui la Modernità e la scienza avevano liberato gli uomini, separando nettamente questi dalla sfera naturale e recidendo le catene “emotive” di causalità istituite fra uomo e mondo naturale, fra microcosmo delle vicende umane e macrocosmo degli eventi naturali…

Come pare d’altra parte avere la cifra del magico anche molto del discorso dell’ecologia e dell’ambientalismo – Antonio Camorrino scrive di “immanentizzazione dell’animismo” – per l’attribuire a quella sfera che viene circoscritta come naturale un carattere quasi animato, così come avveniva nelle culture arcaiche, scivolando inevitabilmente verso le fantasiose narrazioni New Age, attirando così a sé il raccogliticcio esercito di coloro che sono alla ricerca di un senso delle cose fondato però più sul senso comune e sul sentito dire, e su una congerie di desideri e istanze confusi e disarticolati che li fanno somigliare ai seguaci di Forrest Gump nella sua corsa senza meta attraverso l’America nel capolavoro di Robert Zemeckis. 

Persone apparentate da quello che i pensatori di matrice religiosa definiscono “relativismo”, e più sobriamente sociologi come Berger e Luckmann “pluralismo”, l’esito attuale dei processi di individualizzazione, che sembrano accomunate più dal rifiuto di tutto ciò che è frutto della modernità – tecnica, scienza, razionalità – che da una prospettiva, un “progetto di vita” (per dirla con Beck, 2008) condiviso, e che trovano in una visione metafisica dell’ambiente e della Natura il luogo immaginario in cui rifugiarsi e a cui rivolgere le proprie speranze – speranze salvifiche, palingenetiche. Un ritorno alla dimensione del Mito, insomma, ridotta a utile sponda anche per le ipotesi più bizzarre: il mito non ha dimensioni, non ha misure, non ha bisogno di ragionamenti o prove, ha la sua forza nel mistero, nell’oscurità… 

Forse la rappresentazione migliore della visione dei sostenitori della “grande narrazione ecologista” è Avatar, la pellicola di James Cameron che narra di come i nativi del pianeta Pandora riescano a sconfiggere il tentativo di una multinazionale terrestre di soggiogare il loro mondo per sfruttare i giacimenti di un minerale unico in tutta la galassia. Un grande film d’avventura, che trasferisce su un lontano pianeta una trama da western “dalla parte degli indiani”, in cui l’intera Pandora è connessa dalla partecipazione ad un’anima comune residente in Eywa, un albero immenso, vivo, mistico, un’incarnazione dell’Albero della vita di tante visioni arcaiche e tradizionali.

Il paradiso degli ecologisti, si potrebbe dire – che non sappiamo però come lo hanno accolto – e dei credenti nelle varie filosofie new age. Un racconto in cui i cattivi (l’apparato industrial-militare terrestre) fanno i cattivi e i buoni (gli abitanti di Pandora: ominidi, piante, animali, e Eywa) fanno i buoni: razionalità strumentale da un lato, interiorità, naturalità e sacro dall’altro.

Una narrazione, appunto, mitica, in cui vengono messe in scena due opposte concezioni del : nella definizione dello storico della cultura Charles Taylor (2009) il “sé poroso” degli uomini immersi nel sacro, tutt’uno col cosmo, e il “sé schermato” degli uomini delle società moderne, razionali, separati dal mondo, estranei al soprannaturale. Uno slittamento che ha anche un terzo passaggio, quello al “sé blindato” (Fattori, 2013) degli individui della tarda modernità, chiusi in se stessi, privi di progetto, di prospettiva, persi in un eterno presente senza scopo e senza senso.

Ecco, forse il ritorno alle lusinghe del sacro e delle narrazioni mitiche e vaghe come la “grande narrazione ecologista”, a un Sé “poroso”, sono il frutto di una reazione all’isolamento e alla mancanza di scopo della “blindatura del Sé”…

Un ritorno al sacro che si combina con il ricorso sempre più numeroso al sostegno psicologico e alla proliferazione di “terapie” le più varie, tanto da permettere alla sociologa Eva Illouz (2013) di scrivere di “narrazione psicologica” a proposito dei modi di dare senso al mondo dopo la fine delle “grandi narrazioni” moderne. A pensarci, “grande narrazione ecologista” e “narrazione psicologica” non sono poi tanto lontane fra loro: se la prima guarda al macrocosmo che ci circonda, la seconda si rivolge al microcosmo che ipotizziamo dentro di noi, anche qui, alla ricerca di una “salvezza” ipostatizzata, del “vero sé” che sarebbe profondamente nascosto dentro di noi. Anche qui, si va alla ricerca di una possibile “attribuzione di colpa” per i propri disagi e le proprie sofferenze. Una ricerca della vera essenza delle cose che sconfina facilmente nel magico, nel metafisico, e che spesso, nel caso delle psicoterapie, si fonde con l’astrologia, i fumi dei bastoncini di incenso, i cibi, i tessuti, e quant’altro c’è di “naturale” disponibile al consumo “alternativo”…

Resta una domanda sospesa: Chissà se ecologisti e ambientalisti proietterebbero Avatar per i “Masai del Kenia e della Tanzania ai Chetri del Nepal… agli aborigeni dell'Australia e i pigmei del Camerun” di cui scriveva la Caferri. Chissà che penserebbero allora dell’alleanza fra imprese di estrazione dei minerali preziosi e ambientalisti preoccupati per la “Natura” africana da cui, anche per loro come per i sostenitori della razionalità strumentale, evidentemente gli uomini sono separati… o forse, come ancora per tanti altri, Masai e Pigmei, non essendo bianchi, non fanno parte degli umani?

 

Bibliografia

Ulrich Beck, Progettare la propria vita, il Mulino, Bologna, 2008.

Peter Berger, Thomas Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna, 2010.

Francesca Caferri, Le tribù minacciate dagli ecologisti cacciate per far posto ai parchi, in “la Repubblica”, 13/5/2007, http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/ambiente/tribu-ecologisti/tribu-ecologisti/tribu-ecologisti.html

Antonio Camorrino, La natura è inattuale. Scienza società e catastrofi nel XXI secolo, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2015.

Norbert Elias, Coinvolgimento e distacco. Saggio di sociologia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 1988.

Adolfo Fattori, Sparire a se stessi. Interrogazioni sull’identità contemporanea, Ipermedium, S. Maria C. Vetere, 2013.

Thomas P. Hughes, Il mondo a misura d’uomo. Ripensare tecnologia e cultura, Codice, Torino, 2006.

Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, il Mulino, Bologna, 2013.

Charles Taylor, L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009.

 

 

 

 

 

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