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Musica e parole: Platero Y Yo e l’elogio degli ultimi

Moni Ovadia, tra paesaggi andalusi e chitarra di Emanuele Segre, ritorna in scena a Taranto con il collaudato spettacolo Platero Y Yo.


In tre domande la sua identità d’artista e la scelta di stare dalla parte dei più fragili.

Sulla scena Moni Ovadia è l’icona autorevole ed austera della cultura ebraica, anzi, yiddish ovvero la lingua che, sin dal X secolo, contraddistingue gli ebrei originari dell’Europa orientale. C’è distanza fra lui e il pubblico, una mancata confidenza dettata dalla sua figura impassibile, parca di sorrisi. Solo alle volte, la mano nella tasca della casacca stringe fra le dita la stoffa come per sostenersi a qualcosa nei momenti più impegnativi, ma poi torna a poggiarsi sul leggio o sul suo cuore. Per la Stagione Concertistica degli Amici della Musica Arcangelo Speranza, “Platero Y Yo” di Juan Ramon Jiménez: opera di musica e parole, voce narrante Moni Ovadia, chitarra di Emanuele Segre.  Uno spettacolo raffinato, decisamente pacato nei toni e lineare. La storia di un’amicizia singolare tra Platero, un asino, e Jiménez, il poeta spagnolo, si snoda attraverso componimenti dall’aria vagamente onirica sullo sfondo di paesaggi andalusi, incontri talvolta casuali e riflessioni estemporanee tra natura e spirito. L’amicizia è il pretesto per soffermarsi , con sguardo meno saccente, sulle piccole cose che hanno in comune le vite di ciascuno di noi. “Platero Y Yo” inizia con una efficace dissertazione di Ovadia sull’asino, bestia umile di cui si sottovaluta dignità e necessità nella storia dell’uomo. Così i 13 componimenti scelti dall’intera opera di Jiménez, tracciano una sintesi del profondo legame che si instaura fra i due compagni di piccole avventure: si inizia con la nascita dell’amicizia per concludere inevitabilmente con la morte di Platero. Le poesie, musicate per audace accostamento fra voce e chitarra da Mario Castelnuovo-Tedesco nel 1960, Moni Ovadia le legge in italiano e di seguito in un appassionato spagnolo: i tempi sono serrati, non ci sono intercessioni a commenti e riflessioni. Ad ogni poesia sembra di vederli sempre più nitidamente il poeta e il suo asino dagli occhi scintillanti. La chitarra non può che contribuire a raccontare un paese assolato e schietto e mettere insieme i punti fermi di un lavoro coerente con alcuni dei temi che Moni Ovadia rincorre da tempo: l’identità ebraica, la fermezza di valori concreti pur nella loro bizzarra manifestazione - come questa amicizia tra un poeta premio Nobel per la Letteratura e un asino, l’animale tra i meno dignitosi per reputazione – la questione, celata durante lo spettacolo, ma centrale nelle riflessioni di Ovadia, dell’esilio a cui il poeta fu costretto dopo la guerra civile spagnola. La serata non lascia spazio alle divagazioni: la sobrietà di questo spettacolo resta un invito alla riflessione sul valore assoluto della poesia e sulla possibilità di riconsiderare anche ciò che consideriamo “ultimo” il trampolino di lancio per più affinate visioni del mondo. Inaspettatamente, alla fine del recital, Moni Ovadia, si lascia blandire con generosità dal pubblico che gli chiede ragguagli sullo spettacolo, che chiede di firmare la prima pagina dei suoi libri e che da lui si congeda con deferenza.

Moni Ovadia usa una gentilezza cordiale. Si scusa per l’attesa e chiacchiera senza fretta. Racconta di essere soddisfatto di ciò che ha realizzato sino ad ora, senza illusioni, con la capacità poliedrica di comunicare e testimoniare, attraverso l’arte, ciò in cui crede. Sempre rincorrendo l’onestà di uomo e di intellettuale.

La chiamano “maestro”. D’altra parte non si può dire che lei sia un attore, o cantante.. artista sarebbe troppo generico ed un limite rispetto ad una certa immagine che si ha di lei. Cosa le viene in mente quando la chiamano così?

Li lascio dire. Qui nel sud è più frequente. Ma  mi chiamano anche più semplicemente Moni. Probabilmente, chi lo fa, è più attento al mio percorso. Lo intendo come un riconoscimento pubblico alla mia coerenza artistica. Lavoro ad un teatro e a musica non convenzionale, fuori dalla logica dei generi teatrali. È un teatro in musica, unisco il corpo musicale con quello drammaturgico. Mi sono dedicato alla ricerca nell’ambito della cultura yiddish e ho, di conseguenza, maturato scelte etiche e politiche vicine alla condizione dell’esilio, intesa come sensazione di spaesamento, di mancanza di territorio in cui identificarsi. Credo che sia per questo. La mia formazione è frutto di scelte complesse, di un cammino in profondità.

La sua immagine è ormai un simbolo: lei rappresenta la cultura ebraica o forse la capacità di mettere insieme, di unire, la cultura yiddish con la cultura occidentale, e non solo. La sua è spesso la voce fuori dal coro, come raccontare della dignità di un asino quando di asini non se ne vedono quasi più. Racconta storie che si vogliono dimenticare, difende il concetto di debolezza.

Intanto è un percorso che negli anni ho sentito dentro, un’urgenza. Ci sto a mio agio nelle culture che glorificano il fragile, la condizione di ricerca di tanti uomini che hanno scelto la non violenza. La cultura della diaspora ebraica insegna che gli ebrei hanno preso sul serio il comandamento di non uccidere, sino al momento in cui è iniziato il conflitto con i palestinesi. Per secoli hanno preferito la non violenza e la condizione di esilio. E’ curioso riflettere sull’idea che Dio abbia scelto il popolo meno compatto, dignitoso, per rivelarsi. Ha scelto la schiuma dei popoli, perché è il Dio di tutti, a partire dallo schiavo.

Si è dichiarato agnostico: ci delinea il quadro di un ebreo agnostico?

Ciascuno di noi ha molte identità: sarebbe limitante rapportarsi solo alle relazioni di legittimità rispetto alla nazione di appartenenza, al gruppo etnico, alla religione… Così l’identità ebraica è complessa e contraddittoria allo stesso tempo. Il popolo ebraico è l’unico popolo che non si è aggrappato alla identità etnica, ma ad una teoria. Gli ebrei sono il popolo della Thorà: non sono omogenei sul piano etico, ma sul piano delle regole. Le assicuro che mi sento molto poco al mio posto in Israele. Questo dice molto sulla mia insofferenza a qualsiasi nazionalismo. Mi sento europeo e con una identità che riconosco pienamente ebraica”.

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