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Muori Napoli, e poi vedi

Antonio De Curtis, in arte Totòuno dei più grandi attori della storia, consegnò all'umanità uno dei più bei testi sulla morte.

La straordinaria poesia di cui parlo si chiamava "A' livella": che tu sia un marchese o un netturbino, che tu sia il nobile signore di Rovigo e di Belluno o Gennaro Esposito, indipendentemente dai tuoi trascorsi " A' morte 'o ssaje ched''è? ...è una livella", diceva il grande e compianto Totò, servendosi della rabbia del disonorato e spazientito spazzino.

Ora già partendo dal fatto che uno dei più grandi esperti in materia, cioè di esperti in morte, fosse detto "il principe della risata", già dovrebbe dire tutto.

In questi giorni la vita, anzi, la precarietà della vita, è uno dei temi caldi dell'attualità della cronaca partenopea.

E' da poco passata la mezzanotte quando Carmine, giovane operaio di 39 anni, muore nel cortile di un palazzo di Crispano durante i festeggiamenti di Capodanno, con la scapola trapassata da un proiettile di una pistola calibro 9.

Federica, 15 anni compiuti da poco, sta andando a scuola come tutte le mattine: rimane incastrata tra le porte dell'autobus dal quale sta scendendo, il bus va avanti ma lei finisce sotto le ruote. Muore dopo 12 ore ed un intervento chirurgico d'urgenza all'Ospedale San Paolo.

Vincenzo, 57 anni, è il titolare di un'officina a San Giorgio a Cremano, che viene ucciso per essersi trovato in prossimità del luogo del delitto di un pregiudicato.

Senza dimenticare Alessandro, 31 anni, Raffaele, 44 anni, e Franco, 39 anni, in Italia le cosiddette "morti bianche" che sta per caduti sul lavoro, ma che a Napoli sono da considerarsi pur sempre nere, visto che il lavoro è quasi sempre a nero viste le sue illegali condizioni.

Proprio ierileggendo questa lettera inviata al direttore de Il Mattino, pensavo a cosa potrebbero avere in comune Carmine, Federica, Vincenzo, Alessandro, Raffaele o Franco, niente o forse tutto.

E mi è venuta in mente quella famosa livella di Totò, a cui accennavo nella premessa: un po' come il fenomeno monnezza, di cui non fai parte ma senti che ti appartiene, si ha la sensazione che il tema della morte, anzi della precarietà della vita, a Napoli sia sentito decisamente di più rispetto alle città del Centro o del Nord.
 
"Muorto si' tu e muorto so' pur'io; ognuno comme a 'na'ato è tale e quale" scriveva il mai morto Principe Antonio De Curtis, nato da una relazione clandestina in una casa al secondo piano, di un modesto palazzo nel Rione Sanità.

A Napoli si respira un'insostenibile leggerezza della vita, ma soprattutto un'insopportabile abitudine alla morte, una doccia d'acqua fredda e gelida che come unico effetto avrà lo scuotere un po', ma che scivola pur sempre sul corpo unto dell'indifferenza.

E che tu sia nato a Posillipo o a Scampia, al Vomero o a Ponticelli, a Via Manzoni o Via Bakù, a Via Scarlatti o a Via de Meis, la precarietà della vita si somma a quella della coscienza, il tempo di un sospiro a quello di una riflessione, quello di una lacrima a quello di un sorriso.
 
Anche se l'impotenza ti rende piccolo piccolo, all'ombra di una delle metropoli più grandi e ricche del Mediterraneo, si ha la percezione di un substrato comune, una linea sottile che congiunge le sorti di un milione di cittadini da un capo all'altro della città, come una striscia di monnezza lunga lunga che invade tutto ciò che è luogo, ma che soprattutto pervade nell'orgoglio di chi crede che un altro mondo sia possibile, da cominciare se è possibile solo con e da sé stessi.

"Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!". 

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