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Mistero doloroso di Anna Maria Ortese

Sì, non forse venuto per lei, ma certo contento di lei, restato per lei, così pensava Florì del principe, in quel gaudio muto e torbido della adorazione adolescente. E che venisse da lontano, e tornasse lontano, non voleva sapere. Importava questo: ch'era venuto e rimasto lì, e sorriso, e rinnovato il mesterioso cenno.
Caro Cirillo, perché la guardava.
(pag.55)
 
'Mistero doloroso' di Anna Maria Ortese (Adelphi, 2010, edizione a cura di Monica Farnetti) è la storia d'amore tra una giovane donna all'ingresso dell'adolescenza e il nipote del re, il principe pallido e serioso Cirillo nella Napoli di fine Settecento. Ma non è una storia d'amore entro i canoni romantici dove le etiche del bene sconfiggono il male, dove l'amore può tutto, vince su tutto e la felicità spetta a tutti. E' pressapoco il contrario. E' la storia d'un amore nato morto, costellato anche nella sua lunga pausa d'attesa da segnali, indicatori della caducità delle cose.
 
Soave e delicato.
Crudele e implacabile.
Un racconto sospeso, breve ma dalle atmosfere dolorosamente infinite, dove i sentimenti spiegandosi non si spiegano, negandosi sono.
 
Ritmo lento, stile impegnativo per strutture sintattiche e gestioni linguistiche, la Ortese non cerca il bello nella declinazione di 'piacevole' piuttosto s'impossessa delle complessità, delle pesanti e fonde contraddizioni del vivere e le espone senza filtri, né giudizi. L'unica mediazione è tra le parole, a mitigare o indurire inquadrature. Nella fine inevitabile, la Ortese toglie al lettore ogni possibile residuo di speranza romantica, idilliaca risoluzione nonché ogni balsamo lenitivo per le ferite. Provare sentimenti devastanti è cedere alle ferite che se si rimarginano restituiscono carni diverse da ciò che erano prima dell'affondo.
La massima manifestazione d'amore affidata all'immagine d'un uomo che bacia il piede a una donna. Un bacio che è ammissione, sottomissione e 'guaio'.
 
E si tolse di tasca la corona del rosario di corallo.
"Me l'aveva data donna Durante per te. Perciò venni. E poi me ne dimenticai".
Essa la prese con indifferenza, e poi la posò su un tavolo.
"Non ritorna mai, mai," disse parlando impersonalmente "don Cirino?".
"Forse. Da vecchio" tranquillamente rispose.
Si sentiva infatti già vecchio, strano. Quel momento mirabile era passato. Florì aveva parlato, ed egli le avevo baciato il piede. Egli, don Cirillo, aveva offeso così la povera Ferrantina. Che guaio.
(pag.89-90)
 
Il racconto lungo è stato rinvenuto a Rapallo dopo la morte della Ortese, ventisette fogli dattiloscritti non datati con correzioni manoscritte a margine, che si fa risalire al periodo 1971-1980. Rimasto dunque inedito fino alla morte della Ortese, non per scarsa fiducia dell'autrice, quanto pare per il motivo contrario, per gli affondi e le ossature di tematiche e atmosfere che sono poi state inspessite e ampiamente approfondite in scritti successivi.
 
Nell'edizione 2010 Adelphi, le note finali di Monica Farnetti aggiungono al racconto quella lente in più che può aiutare anche il lettore che non conosce la Ortese o che non ne ha letto altro. Infatti, il periodo storico della trama, la lingua dell'autrice nonché la soavità, le sospensioni e la lentezza: tutti questi ingredienti richiedono comprensioni e un'abitudine alla lettura diversa dalla moltitudine di pubblicazioni contemporanee. Non si tratta di una storia veloce, nonostante la lunghezza limitata, resta una storia fondata sulle comprensioni inafferrabili, sulle lentezze di tempi e modi.
 
Il mistero doloroso non è soltanto lontano da aspettative, è anche finemente faticoso nel riconoscere quanto il bene fa male, quanto il bene è fugace mentre il male resta. Entrambi però, male e bene, non si cancellano, serbano nelle memorie essenze e verità.

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