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Memorie tra le Nuvole: a Fabrizio

"Perchè scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me."
Fabrizio De André


Ho conosciuto le parole di Fabrizio De André, e potrei quasi dire Fabrizio e basta, non spinto da vinili ascoltati da bambino o da lodi tessute in ambiente familiare. Non mi interessava tutto ciò che potevo situare nel contesto della musica italiana, odiavo profondamente Battisti per la sua voce da pollo fioco e non sopportavo le smielatezze che da sempre San Remo ed il grande varietà dei dischi italiani portano avanti.

Ho conosciuto Fabrizio grazie ad un cd masterizzato da un amico, ascoltato e riascoltato, fino a conoscerne frase per frase, parola per parola a memoria. Mi ha rapito il suo punto di vista, e sono sicuro, mi ha aiutato a migliorare. Questo non significa che io, ad oggi, sia un chissà chi da seguire, o roba del genere, semplicemente il suo sguardo mi ha aperto gli occhi su orizzonti che avevo relegato ai ricordi di infanzia. Iniziai immediatamente a comprare i suoi album e ognuno era una scoperta, un’emozione. Quando comprai Nuvole mi commossi dopo aver ascoltato la prima traccia, ero in macchina e lo stesso posso dire di chi era lì in mia compagnia. Anime Salve mi ha staccato ad uno ad uno i pregiudizi, mi ha relegato nella regione più nascosta di me stesso, a confronto con me stesso, cosa che nessun’altra persona, canzone, poesia era mai riuscita a fare. Potrei dire che dalla prima canzone che ho ascoltato, Fabrizio non mi ha più lasciato e mi ha guidato attraverso le parole scritte, parlate o cantate. Non è questione di imitazione o fragilità di spirito, per cui si richiedono modelli, è approfondimento, confronto. Ogni persona, se è se stessa, è diversa dalle altre, ma non per questo uno sguardo indulgente ed educativo deve essere inutile. A dieci anni dalla sua scomparsa ho un grande rimpianto. Il rimpianto di non averlo mai visto dal vivo, ma più che altro la tristezza di sapere che Fabrizio, fisicamente, non c’è.

A dieci anni dalla sua scomparsa mi chiedo perchè delle persone si debba commemorare la dipartita e non la nascita, mi chiedo perchè non si debba esaltare cosa è stato lasciato, ma solo chi ci ha lasciato. Non voglio dividere la persona dai fatti, sono ovviamente legati indissolubilmente, vorrei che la televisione smettesse di sparare in aria fuochi di artificio di cazzate nei suoi riguardi. Non basta un minuto di un servizio, non basta due parole spiaccicate su di uno schermo per rendere onore a quella voce, a quella smaliziata intelligenza. Ma del resto lui lo sapeva benissimo, ed infatti ni televisione ci andava davvero poco. Lasciava la sua voce alla gente, sperando che potesse servire, non so se sapendo che alla gente comune, agli ultimi, la sua voce arrivava forte e chiara, si insinuava sotto la pelle, lasciando agli occhi qualche piccola cascata di commozione. Fabrizio cantava per sè, per primo, come tutti. Ma cantava per loro, per noi. Non mi dispiace in effetti, che per quanto il suo popolo sia ampio, sia in un certo senso una elite, una elite dove non entrano i borghesi, le persone di apparenza, chi non capisce e non vuole approfondire. Non mi meraviglio, quindi, che la televisione cerchi in ogni modo di stereotipare la sua immagine.

Oggi al Tg1 non hanno avuto niente di meglio da dire che il fatto che i servizi segreti indagavano sulle sue attività. I comunisti stanno con Guccini, per tradizione, per senso elitario i liberali intelligenti stanno con Battiato e così via, alla gente, ai nullisti, alla televisione piace molto schematizzare. Qualche anno fa mi scontrai con un amico perchè diceva che De André "non era per tutti". E’ una cosa paradossale perchè Fabrizio scriveva per tutti, o quantomeno per tutti gli ultimi, non scriveva per la borghesia, non cantava per i circoli aristocratici. Ad oggi in parte sottoscriverei quella frase, magari aggiungendo che ugualmente, pur non essendo per tutti, scriveva per tutti. Anche se non credo che "Il pescatore", che forse è la sua canzone più conosciuta, sia la sua testimonianza più forte. Ma del resto, anche gli scout devono avere qualcosa da cantare davanti al fuoco, e gli ex sessantottini imborghesiti, se non possono più per coerenza abbracciare la canzone del maggio, rimangono affezionati alla sua immagine. Era un grande fumatore, ed un grande bevitore di whisky, anche questo me lo rende simpatico. Era un uomo, non un predicatore, un uomo. Coerente, però. Un uomo con le sue idee, che non in tantissimi hanno la fortuna di apprezzare ed ancora meno di capire. Talvolta capire una canzone di Fabrizio significa rivangare nella sua vita, o nei suoi studi, o frugare rispettosamente tra le sue parole. E tra le sue parole, in questi giorni di guerra, voglio ricordarlo con Sidun, una delle sue canzoni più belle, che parla, appunto della città di Sidone, travolta dalla guerra tra Isrele e Siria, sul territorio Libanese.

Non è proprio il caso di lasciare che il suo ricordo si spenga, e nemmeno che le sue parole si offuschino nel tempo. Fabrizio non ha mai avuto le celebrazioni che si dovrebbero ad una persona del suo calibro, si potrebbe quasi dire che non ha avuto una patria grata. Ma la sua gente lo è stata e lo sarà. "È il caso di Sidone, Sidùn in genovese. Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all’uso delle lettere dell’alfabeto anche l’invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai congoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grasse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza."



SIDONE Il mio bambino il mio il mio labbra grasse al sole di miele di miele tumore dolce benigno di tua madre spremuto nell’afa umida dell’estate dell’estate e ora grumo di sangue orecchie e denti di latte e gli occhi dei soldati cani arrabbiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigione e nelle ferite il seme velenoso della deportazione perché di nostro dalla pianura al molo non possa più crescere albero né spiga né figlio ciao bambino mio l’eredità è nascosta in questa città che brucia che brucia nella sera che scende e in questa grande luce di fuoco per la tua piccola morte.

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