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Maurizio, operaio da cinque anni, cassintegrato da un giorno

Il personaggio protagonista è inventato, mentre i fatti narrati corrispondono tutti al vero.

Sono Maurizio, operaio da cinque anni, con contratto a tempo indeterminato, presso la Radicifil Pistoia.

Ho una moglie, che lavora come impiegata, e due bellissime bambine in età scolare. La vita sembrava dura, giorno dopo giorno, nel caldo e stressante lavoro delle macchine, nella difficoltà quotidiana della monotonia, nella imperosa assenza di obiettivi lavorativi che non facessero pensare alla pensione. Il lavoro è una cosa strana, ti annulla, ti annienta, ti riduce ad un numero di ore e di manufatti prodotti. Una macchina. Il pensiero non è richiesto e nemmeno tollerato.

Il 28 aprile scorso ho saputo che non sarei ritornato al lavoro, che la mia fabbrica aveva prospettato una forte ipotesi di chiusura. Ho guardato i volti dei miei amici, quel giorno, non c’era un sorriso, nessuno riusciva a sdrammatizzare. Non avresti detto, da quei musi duri che fosse possibile accettare la realtà. Poi qualcuno, forse più forte dentro, ha deciso di parlare per tutti: faremo un presidio. Non uscirà niente da qui dentro, nessuna di tutte queste merci prodotte e pronte alla vendita, non senza che noi riotteniamo il nostro lavoro.



Dicono che potranno garantire ad ognuno di noi 800 euro al mese per un anno. Poi basta. Come se fosse tanto, come se con questi ottocento euro si potesse davvero vivere. Mi chiedo se questa gente, che elabora proposte, sia mai andata a fare la spesa, abbia mai notato quanto costa il pane, quanto la pasta, quanto i pomodori. Il presidio continuerà, non demorderemo.

Ieri mattina, verso le undici e mezzo è passato di qui Vannino Chiti, dice che porterà il caso in parlamento, dice che la città si deve stringere attorno a noi 137, dice che non è tollerabile nè il comportamento della Radicifil, che convocata dal sindaco non si è presentata, e tantomeno quello del governo, che non ha attuato misure giuste per non far naufragare le imprese. Guardo lui, il signor Chiti, e mi chiedo se lui stesso sia mai andato a fare la spesa, in tutti questi anni romani. Mi chiedo cosa ne capisca, oggi, lui di Pistoia, di quella che era la sua città. Dai tempi in cui anche lui poteva dirsi a buon viso pistoiese, deve aver aggiunto diversi buchi alla cintura. Mi ricordo di quando dei questurini picchiarono suo figlio a sangue credendolo un albanese (come se la cosa fosse giustificata). Ecco, fosse stato mio figlio, il giorno dopo sul giornale non ci sarebbe stato scritto niente.

Sono Maurizio, operaio da cinque anni, con una prospettiva di cassintegrato per un anno, grazie alla probabile chiusura della Radicifil Pistoia. Anche il vescovo si unisce all’appello, dice che il lavoro è un diritto. Vannino Chiti, intanto, se n’è andato a Roma, chissà se ricorda anche una sola delle parole che gli abbiamo detto. Intanto qui dicono che la produzione di Pistoia verrà spostata integralmente a Bergamo e che addirittura non verranno qua per spostare i macchinari, li ricompreranno nuovi, cosa che conviene per le misure governative. Io sono ancora qua, con i miei amici, al presidio. Noi non molliamo.

Commenti all'articolo

  • Di Fabio Calamati (---.---.---.41) 9 maggio 2009 13:32

    Caro Maurizio
    mi chiamo Fabio Calamati, sono un giornalista del Tirreno e quella sera, quando arrivò la notizia del pestaggio in questura, ero io al lavoro in redazione. Ti garantisco che il mio giornale inserì la notizia con l’evidenza che poi ebbe il giorno dopo mentre ancora non sapevamo che tra i ragazzi picchiati ci fosse il figlio di chiti. Lo apprendemmo solo più tardi, la circostanza venne ovviamente aggiunta nei resoconti, ma titolo e "peso" nell’economia di quel giornale non cambiarono. Quelli erano prima che si sapesse di Chiti, quelli rimasero.
     Perché la notizia era che un gruppo di ragazzi denunciava di essere stato picchiato in questura, non tanto che tra loro ci fosse il figlio dell’onorevole.
     Naturalmente non ho strumenti per dimostrare a te e a chi legge che davvero è andata così. Lo so io, lo sanno quelli che lavoravano al giornale. E per la mia coscienza basta. Ti prego dunque di credermi: fosse stato tuo figlio, quella sera, Il Tirreno l’avrebbe trattato esattamente come il figlio di Chiti.

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