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Maria Egiziaca e tre concerti della stagione sinfonica della Fenice

Godibilissima la breve opera di Respighi. Myung-Whun Chung suona e dirige. Nicola Luisotti dirige una nuova commissione e “Il Titano” di Mahler.

Un titolo di rarissima esecuzione – l’ultima volta a Venezia risaliva al 1956 (tre recite a partire dal 21 gennaio) – è stato rappresentato, riscuotendo un convincente apprezzamento da parte del pubblico, al Teatro Malibran.

Maria Egiziaca, “mistero in un atto e tre episodi”, di Ottorino Respighi (Bologna, 1879 – Roma. 1936) si è sviluppato in 75 minuti.

Il nuovo allestimento è stato affidato per la regia, le scene e i costumi a Pier Luigi Pizzi, mentre c’è stato il gradito ritorno, in qualità di maestro concertatore e direttore dell’orchestra del Teatro, di Manlio Benzi, il quale aveva diretto nel 2004 “Il principe porcaro” di Nino Rota e “Lucia di Lammermoor” e nel 2018 “Madama Butterfly”.

Nata come trittico da concerto nel 1931, Respighi, per la versione di teatro musicale, si avvalse della collaborazione del librettista Claudio Guastalla (1880 – 1948), decidendo di scegliere come soggetto l’esistenza terrena di Santa Maria Egiziaca, riprendendo fedelmente una leggenda medievale, tratta dalle “Vite de’ Santi padri” di Domenico Cavalca, scrittore e religioso, vissuto tra il 1200 e il 1300.

Vi si Narra di Maria (344 circa – 421), una giovane prostituta originaria di Alessandria d’Egitto (sarà proclamata “santa patrona delle prostitute pentite”), la quale, convertitasi al cristianesimo, trascorse 47 anni in ritiro nel deserto per espiare le proprie colpe, venedo in seguito santificata.

L’azione dell’opera è suddivisa in tre episodi, incentrati il primo sul peccato, con la partenza di Maria da Alessandria ; il secondo sulla conversione, con l’arrivo al tempio di Gerusalemme ; il terzo sull’espiazione, con il racconto degli ultimi istanti di vita dopo il lungo errare nel deserto, assistita da un monaco santo (Zosimo), che poi provvederà a seppellirla con l’aiuto di un leone.

Un’ampia vetrata che mostra il mare, una barca, con tre marinai, una croce, costituiscono i componenti scenografici scelti dal regista.

Applauditi, per convinzione, i cantanti protagonisti, vale a dire la soprano trevigiana Francesca Dotto, nei panni di Maria e il baritono bolognese Simone Alberghini, in quelli doppi del pellegrino e dell’abate Zosimo.

Nei due ampi interludi strumentali, che separano i tre episodi e che rappresentano i due viaggi di Maria – la traversata del mare e del deserto – si è fatta applaudire la danzatrice (Mimo nella locandina) Maria Novella Della Martira, che ha unito con successo bellezza e capacità tecniche.

Concludiamo con le parole di Manlio Benzi. E’ un’opera eminentemente sinfonica, che utilizza un’orchestrazione sostanzialmente da camera, estremamente ricercata e sintomatica nelle scelte strumentali, mai scontate : ci sono i legni (gli archi), due clarinetti, due corni, due tromboni, un clavicembalo (suonato da Roberta Paroletti). Gli strumenti sono scelti in modo assai oculato, avendo il compositore le idee assolutamente chiare sulle tinte musicali che voleva mettere in campo. La prima peculiarità di questo lavoro di Respighi è il fantastico equilibrio del tutto. Quest’ora abbondante di musica è perfettamente proporzionata nelle relazioni tra le sue parti. Così come altrettanto curata e calligrafica è la struttura strumentale.

Amatissimo dal pubblico e quasi di casa ormai a Venezia, il direttore coreano Myung-Whun Chung si è esibito al Teatro Malibran, dapprima nella doppia veste di pianista e direttore nel Concerto per pianoforte, violino, violoncello e orchestra in Do maggiore, op. 56 di Ludwig van Beethoven.

Dopo una pausa, dovuta in gran parte per motivi logistici, è poi passato soltanto a dirigere la Sinfonia n. 4 in Mi minore, op. 98 di Johannes Brahms, considerata uno dei capolavori del sinfonismo tedesco.

L’orchestra, nella prima parte, composta da 28 archi, 10 fiati e, per la sezione percussiva, dai timpani, ha eseguito con destrezza e buon gusto un concerto in tre movimenti (Allegro – Largo – Rondò alla polacca, una danza aristocratica che dalla Polonia si era diffusa nelle corti di tutta l’Europa e conservava ormai ben poco delle sue origini), scritto per esaudire il desiderio dell’Arciduca Rodolfo D’Asburgo-Lorena, allievo di Beethoven e fratello dell’imperatore Francesco II.

Anche se lo spartito pianistico fu scritto per un pianista di limitate possibilità, quale doveva essere l’Arciduca, Chung, forse poco allenato allo strumento, è sembrato spesso perplesso, sulla giustezza e la qualità della sua esecuzione.

Molto bravi Roberto Baraldi al violino e Emanuele Silvestri al violoncello, i quali hanno intrecciato interessanti ed eleganti dialoghi, in linea con il carattere sereno e rilassato di una composizione durata circa 35 minuti.

A seguire, un breve bis offerto dai solisti. Dal “Trio in Re minore” di Felix Mendelssohn hanno eseguito un romantico Andante.

Monumentale è l’ultima sinfonia di Brahms, suddivisa in quattro movimenti – Allegro non troppo ; Andante moderato ; Allegro giocoso ; Allegro energico e passionato - , composta in gran parte nel piccolo villaggio stiriano di Murzzuschlag, in Austria, tra il 1884 e il 1885.

L’orchestra diventa più numerosa – ho contato oltre 50 musicisti -. Aumentano i percussionisti (3) ; il timpanista governa tre tamburi, rispetto all’unico nel concerto beethoveniano e per la prima e unica volta Brahms inserisce, nell’Allegro giocoso, il triangolo.

A questo proposito, l’addetto allo strumento, è costretto, lasciando trasparire un’espressione di tristezza, ad intervenire per un brevissimo lasso di tempo, rimanendo però in scena per tutta la durata della sinfonia.

Appassionante, mutuando l’aggettivo dal titolo del movimento, l’ultima parte, con un’esplosione di suoni e un volume insolito, che provoca una tensione in chi ascolta.

Applausi a non finire che si ripeteranno forse anche di più nell’esecuzione della Messa da Requiem per soli, coro e orchestra di Giuseppe Verdi, al Teatro La Fenice, in occasione del 150° anniversario della prima esecuzione assoluta, avvenuta il 22 maggio nella Basilica di San Marco a Milano, ritenuta dal compositore la migliore dal punto di vista acustico.

Nelle intenzioni di Verdi, il suo capolavoro, considerato il monumento sinfonico-corale più importante del repertorio italiano, della durata di circa 90 minuti, vuol essere una Messa funebre in memoria di Alessandro Manzoni, per il quale l’Autore nutriva una profonda ammirazione, scomparso giusto un anno prima.

Quattro i solisti impegnati – la soprano Angela Meade ; il mezzosporano Annalisa Stroppa ; il tenore Antonio Poli, che ha sostituito in corsa l’indisposto Fabio Sartori ; il basso Riccardo Zanellato – accanto a un coro di 120 cantanti, istruito a puntino da Alfonso Caiani e ad un’orchestra di 100 musicisti.

La Messa è formata da sette brani, quattro dei quali – l’Introito ; la Sequenza del Dies Irae ; l’Offertorio ; il Libera me conclusivo – sono a loro volta suddivisi in due o più sezioni.

Trombe squillanti, archi profondi, vocalità intense, hanno conquistato il pubblico in sala, che ha chiamato alla ribalta più volte il Direttore, il Maestro del coro e i cantanti.

Attualmente direttore ospite principale del Teatro Real di Madrid, Nicola Luisotti ha diretto l’orchestra del Teatro in due composizioni.

La prima, Oltre i Confini, è stata commissionata dalla Fenice, in occasione del 700esimo anniversario della morte di Marco Polo, al relativamente giovane compositore Fabio Massimo Capogrosso (Perugia, 1984), diplomatosi in composizione al Conservatorio dell’Aquila.

Scrivere musica – ha affermato il musicista – significa mettersi alla prova, non essere mai contento.

“Oltre i Confini”, ispirato alla figura di Marco Polo, rappresenta senz’altro uno spunto di riflessione su ciò che spinge la mente umana a guardare oltre i confini conosciuti. Ho sempre considerato la stesura di una partitura come un viaggio che ci porta a scavare nel nostro inconscio, a scoprire aspetti misteriosi della nostra mente, della nostra personalità. Un viaggio capace di arricchirci come artisti, ma anche come uomini. Così, mi piace pensare al viaggio di Marco Polo come al viaggio di un compositore che guarda il pentagramma vuoto come un oceano da esplorare.

Circa quindici minuti di musica, ricca di percussioni, è stata ascoltata con attenzione dal pubblico, con una prova degna di menzione da parte del coro del Teatro, per l’occasione solo femminile, che ha tributato un applauso assai caloroso.

Ma l’attesa, nel consueto, frequentato pomeriggio domenicale, era tutta per ascoltare la Sinfonia n.1 in Re maggiore Titano di Gustav Mahler.

Composta fra il 1885 e il 1888, fu eseguita per la prima volta a Budapest il 20 novembre 1889 - sotto la direzione dello stesso Autore, da poco nominato Direttore del Teatro dell’Opera nella capitale ungherese - , in una versione in cinque movimenti, intitolata Sinfonische Dichtung (Poema sinfonico).

Quella suonata dall’orchestra a Venezia si collega invece all’esecuzione berlinese del 16 marzo 1896, nella quale venne soppresso il secondo movimento, l’Andante Blumine (raccolto di fiori).

I quattro movimenti superstiti assunsero il titolo di “Sinfonia in Re maggiore”.

La prima cosa che colpisce all’ascolto visivo è la grandezza dell’organico – 2 ottavini, 4 flauti, 4 oboi, 1 corno inglese, 2 clarinetti, 1 clarinetto piccolo, 1 clarinetto basso, 3 fagotti, 1 controfagotto, 7 corni, 4 trombe, 3 tromboni, 1 basso-tuba, 2 timpani, 1 grancassa, piatti, 1 triangolo, 1 tam-tam ( cinque i percussionisti convocati ), 1 arpa, la sezione degli archi – che fa presagire ad una maestosità che cresce nota dopo nota, fino all’esplosione finale, che ha avuto il compito di gettarsi alle spalle la lunga tensione accumulata.

Dunque, un ascolto di un’ora che ha avvinto il pubblico, attento e con poche evasioni smartphonistiche, fino a un lunghissimo applauso finale, con ripetute uscite ed entrate alla ribalta.

Nota conclusiva.

Mahler prende a presto il titolo del romanzo, in quattro volumi, Der Titan di Jean Paul, pseudonimo di Paul Friedrich Richter (Wunsiedel, 1763 – Bayreuth, 1825).

Il grande germanista Ladislao Mittner, definì così il romanzo : opera pseudotitanica, un canto di lode della primavera tedesca e delle forze primaverili dell’anima tedesca.

 

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