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Lunghe ma fattuali riflessioni sulla questione israelo-palestinese

Nell’ultimo mese e mezzo il dibattito pubblico italiano si è infiammato e polarizzato su due posizioni opposte ed estreme. 

C’è chi sostiene Israele a prescindere, in quanto democrazia e componente del nostro schieramento occidentale, arrivando a giustificare anche le peggiori operazioni militari contro la popolazione di Gaza; e c’è chi sostiene la Palestina palesemente per motivazioni psicologiche personali, per appartenenza ad un gruppo religioso o per mera voglia di andare “controcorrente” (senza vedere che probabilmente la maggior parte degli italiani che si interessano alla questione sono filo-palestinesi e che è dunque questa la posizione “mainstream”). Un dibattito del genere non si addice ad una delle questioni storico-politiche più complesse degli ultimi cento anni. Chi ha studiato veramente la storia di Palestina ed Israele tende ad avere posizioni più ragionevoli. Proverò qui a mettere in fila alcuni fatti per tentare di analizzare la situazione nel modo più oggettivo possibile. 

Chiediamoci innanzitutto cosa sia il sionismo. Il sionismo è, in breve, l’idea che il popolo ebraico, soggetto a persecuzioni millenarie in Europa, possa trovare pace e prosperità soltanto in una nazione ebraica. Questa idea si è concretizzata nel 1948, quando lo Stato di Israele è sorto in Palestina, luogo dove era collocato il primo Stato ebraico della storia – è curioso notare che anche all’epoca, tra 1.000 e 800 a.C., nella striscia di terra intorno a Gaza risiedeva un popolo diverso con una religione differente, i Filistei –. I sionisti delle origini, nel XIX secolo, pensavano che la Palestina dell’epoca fosse una terra semi-disabitata. I primi immigrati ebrei si accorsero che così non era: quella terra, soggetta all’Impero Ottomano, era popolata da arabi di religione musulmana. Secondo Alexander Scholch, nel 1850 vivevano in Palestina circa 350.000 individui, di cui 297.500 arabi musulmani, 38.500 cristiani e 14.000 ebrei. Nel 1947 c’erano in Palestina quasi due milioni di persone, di cui 1.181.000 arabi, 630.000 ebrei e 143.000 cristiani. In cento anni, gli arabi erano passati dall’essere l’85% della popolazione al 60%; gli ebrei erano passati dal 4% al 32% del totale. Gli arabi erano comunque ancora la maggioranza della popolazione. In un contesto del genere, dove già da tempo si verificavano conflitti religiosi e violenze, creare un unico Stato Palestinese, promuovendo la convivenza tra culture e religioni diverse, sarebbe stata la migliore soluzione possibile. Col senno di poi, l’ONU fece un gravissimo errore nel voler creare due Stati differenti, uno ebraico e l’altro arabo, laddove il primo sarebbe stato di 15.000 km2 e il secondo di 11.000 km2. Principali responsabili dell’approvazione di questa risoluzione furono Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica, mentre gli unici due paesi non musulmani (o senza una cospicua minoranza musulmana) a votare contro furono Grecia e Cuba. L’accordo, oltre a fondarsi su un’idea di per sé sbagliata e conflittuale (il separatismo etnico-religioso), era anche abbastanza iniquo: nonostante gli arabi fossero quasi i 2/3 della popolazione totale, il loro Stato avrebbe avuto solo il 42% del territorio; mentre agli ebrei, che costituivano 1/3 della popolazione, andava il 58% delle terre – per quanto la maggior parte dello Stato ebraico sarebbe stata localizzata nel Deserto del Negev, un territorio arido e privo di risorse naturali.

Con la Risoluzione ONU 181 del 1947, 400.000 arabi musulmani, il 45% della popolazione di quello che avrebbe dovuto essere Israele, si sarebbero improvvisamente trovati a vivere sotto uno Stato ebraico, fondato appositamente per un altro popolo (che però ne costituiva solo poco più della metà della popolazione totale). Chi poteva sapere come e quanto questi arabi sarebbero stati discriminati in uno Stato che di fatto non apparteneva loro? Sebbene Israele si sia costituito da subito come uno Stato laico, la questione non era affatto chiara nel 1947; e, di fatto, anche oggi gli arabi israeliani sono discriminati. Tutt’oggi il 40% degli ebrei israeliani vorrebbe che venisse tolto il diritto di voto agli arabi israeliani e il 56% vorrebbe che nessun arabo potesse essere eletto al Parlamento. Considerando questo, non sembra affatto strano che nel 1947 la comunità ebraica in Palestina avesse accettato la separazione in due Stati, mentre i leader palestinesi no. Visto che la diplomazia aveva fatto questo scempio, gli arabi decisero di fare l’unica cosa che poteva cambiare la situazione: ricorrere alle armi. Ma essi persero la guerra e Israele si espanse ben oltre i confini originali stabiliti dall’ONU. I palestinesi hanno dovuto o accettare di diventare cittadini di Israele, o emigrare in altri paesi, o essere confinati negli unici due piccoli territori in cui sono rimasti maggioranza: la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Oggi tornare alla risoluzione ONU 181 sarebbe chiaramente impossibile; ma, secondo la legalità internazionale, i palestinesi hanno diritto ad un loro Stato autonomo che comprenda quei due territori succitati. Finché non esisterà una Palestina indipendente, probabilmente i conflitti in quell’area del mondo non cesseranno mai. E ad oggi esistono due enormi ostacoli all’indipendenza della Palestina: le politiche di Israele e Hamas.

Nel corso degli anni sempre più israeliani si sono trasferiti in Cisgiordania, attraverso una politica di acquisto di terreni e costruzione di villaggi fatta ad arte per favorire gli stessi israeliani e cacciare via i palestinesi. Si tratta di una vera e propria colonizzazione, lenta e inesorabile. Ciò ha lasciato all’Autorità Palestinese un territorio a macchie di leopardo, su cui comunque esercita un controllo molto limitato e dipendente da Israele. Oggi, tra Cisgiordania e Gerusalemme Est, vi sono circa 900.000 israeliani e 3 milioni di palestinesi. L’odio etnico tra le due popolazioni è tale che, se si formasse uno Stato arabo, gli ebrei molto difficilmente potrebbero farvi parte: sarebbero continuamente soggetti a violenze e discriminazioni. Un accettabile accordo di pace dovrebbe concedere allo Stato di Palestina tutta la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est, quantomeno con un controllo congiunto con Israele) e la Striscia di Gaza. Ciò significa che almeno i circa 670.000 israeliani che vivono in Cisgiordania (escludendo Gerusalemme Est) dovrebbero abbandonare le loro case per tornare in Israele. Si tratta di un esodo sicuramente problematico e difficile, ma che comunque potrebbe avvenire su un accordo di lungo termine, di 10 o 15 anni. Il fatto è che la classe dirigente e politica israeliana non ha alcuna intenzione di rendere veramente indipendente la Cisgiordania. Il periodo migliore per dare indipendenza alla Palestina sarebbe stato tra il 1967 e il 1977, quando gli insediamenti israeliani in Cisgiordania erano ancora pochissimi. Ma all’epoca non esisteva una “questione palestinese” per gli israeliani: nella loro ottica, Gaza e Cisgiordania erano territori conquistati e gli arabi che vi risiedevano dovevano essere accolti in Egitto, Giordania e negli altri paesi vicini. Questi arabi palestinesi hanno invece dimostrato un grande attaccamento alla loro terra e una ferma volontà di vivere in modo indipendente. Ma proprio nel 1977 in Israele sale al potere la destra. La destra israeliana non ha mai avuto alcuna reale volontà di cercare un compromesso con l’autorità palestinese. La parte più estrema dello schieramento ha il desiderio inconfessato di cacciare i palestinesi e rendere la Cisgiordania un territorio interamente abitato da israeliani. Due delle organizzazioni politiche che hanno poi formato il partito attualmente presieduto da Netanyahu, Herut e il Movimento per la Grande Israele, avevano la volontà dichiarata di far annettere ad Israele persino i territori al di là del fiume Giordano che si pensa fossero inclusi nell’antico Regno Unito di Israele e che oggi appartengono alla Giordania. Quando la sinistra è poi tornata al potere, la questione degli insediamenti israeliani ha reso estremamente difficile trovare un accordo. Finché permarrà questo atteggiamento, non ci sarà mai pace in quella terra. Probabilmente solo se l’Europa e gli Stati Uniti facessero molta pressione su Israele per dare una vera indipendenza alla Palestina la situazione potrebbe sbloccarsi.

L’altro ostacolo all’indipendenza palestinese nasce nella stessa Palestina. Nel 2006, Hamas è stata eletta al governo e nel 2007 ha preso il controllo totale della Striscia di Gaza, guidandola da allora come un regime autocratico. Da segnalare che Hamas ricevette solo 440.409 voti su circa 4 milioni di palestinesi dell’epoca: il 44,45% dei votanti, ma appena l’11% della popolazione totale. Questo si spiega in parte con il fatto che la popolazione palestinese è molto giovane: quasi il 50% dei palestinesi ha meno di 18 anni e non ha dunque il diritto di voto. Ma in parte si spiega anche con l’alto tasso di astensionismo. Secondo gli ultimi sondaggi disponibili, solo il 30% dei palestinesi oggi supporta Hamas. Questo per segnalare che il sostegno ad Hamas non sia così diffuso tra la popolazione come spesso si dice in Occidente. Appena arrivata al potere, Hamas ha fatto chiudere i giornali, ha sospeso le elezioni e proibito qualsiasi manifestazione in supporto di Fatah (il partito precedentemente al potere) e contro il governo. Ha reso l’omosessualità illegale, con una pena di dieci anni di carcere. Ci sono report di palestinesi che sono stati arrestati e picchiati dalla polizia semplicemente perché vestivano degli skinny jeans e di poliziotti che hanno preso con la forza e rasato cittadini che secondo loro avevano i capelli troppo lunghi. Oltre a questo, Hamas lotta contro Israele attraverso il terrorismo e vere e proprie azioni criminali che prendono di mira i civili. Probabilmente tra i 1.000 civili israeliani che sono stati uccisi il 7 ottobre scorso vi erano anche persone favorevoli all’indipendenza della Palestina. Bisognerebbe allora chiedersi se Hamas, un’organizzazione che ha lo scopo dichiarato di distruggere Israele, accetterebbe una Palestina indipendente sul territorio di Cisgiordania e Gaza, che lasciasse Israele nei suoi confini legali. Khaled Meshal, leader dell’organizzazione fino a pochi anni fa, nel 2017 ha sostenuto che Hamas avrebbe potuto accordarsi per la formazione di uno Stato Palestinese nei suoi confini convenzionati. Ma in altre dichiarazioni ha lasciato intendere che questa sarebbe stata solo una soluzione provvisoria per una tregua di 10 anni, alla fine dei quali la guerra avrebbe dovuto ricominciare. A quel punto la Palestina, trasformatasi in uno Stato vero e proprio con un esercito regolare, dotatasi di un’aviazione e di carri armati, costituirebbe una reale minaccia all’esistenza di Israele. Inoltre Meshal ha posto come altra condizione per la tregua un diritto al ritorno per i palestinesi con riappropriazione delle case e terre che Israele ha conquistato nel 1948; una condizione chiaramente assurda da proporre settant’anni dopo. Di fatto, Ismail Haniyeh, leader attuale dell’organizzazione, ha dichiarato che il documentato presentato da Meshal non cambiava il principio fondamentale di Hamas dell’unità di tutta la Palestina. Accordarsi con Hamas è impossibile. Questo è uno dei casi in cui, per raggiungere la pace, bisogna passare dalla guerra. L’invasione della Striscia di Gaza per distruggere Hamas era veramente inevitabile. Se la cosa riuscirà, forse si aprirà un’opportunità unica per creare uno Stato di Palestina e pacificare la regione. Ma le cose non sembrano andare per questo verso. La rabbia provocata dal brutale e sanguinario attacco di Hamas ai civili israeliani del 7 ottobre si è rivoltata contro tutti i palestinesi. Israele ha cominciato una campagna di bombardamenti sulla Striscia che nel momento in cui scrivo ha ucciso circa otto volte il numero dei civili israeliani uccisi da Hamas (per quanto il conteggio sia complicato dal fatto che Hamas non riporta una distinzione tra civili e militari nei dati che fornisce). Sembra effettivamente un caso di vendetta. Il governo israeliano sostiene di aver cominciato la campagna di bombardamenti perché, senza una preventiva distruzione del potenziale offensivo di Hamas, l’operazione di terra avrebbe comportato moltissime vittime tra i militari israeliani. Prova ne sarebbe il fatto che, nonostante l’invasione sia stata anticipata dai bombardamenti, già alcune centinaia di soldati israeliani sono morti all’interno della Striscia. Israele ha così cominciato a bombardare le piattaforme da cui Hamas lancia i missili, i depositi di armi e le postazioni in cui aveva individuato i miliziani. Come si sa, però, a Gaza infrastrutture militari e infrastrutture civili quasi coincidono. Hamas ha intenzionalmente posizionato le piattaforme missilistiche o le basi operative accanto o al di sotto di scuole, ospedali e moschee, così da utilizzare i civili come veri e propri scudi umani. Dal loro folle punto di vista, è qualcosa di perfettamente coerente. Non dimentichiamoci che i membri di Hamas sono prima di tutto dei fondamentalisti religiosi: essi credono veramente al paradiso e all’inferno islamici e al fatto che coloro che muoiono in una guerra santa ascendono al paradiso. Per loro dunque la morte non è un fatto grave quanto per noi occidentali: la morte è l’inizio di una nuova vita eterna. Ciò si evince anche dal fatto che nei comunicati ufficiali il Ministero della Sanità di Hamas non parla di morti ma di “martiri”. Ad ogni modo, proprio perché il governo israeliano sa che le infrastrutture militari sono così pericolosamente vicine a quelle civili, avrebbe dovuto fare delle operazioni chirurgiche, per cercare di ridurre al minimo le vittime innocenti. Invece ha scelto consapevolmente di scagliare i missili sul territorio in modo da implicare l’uccisione dei civili, oltre che a privare gli stessi civili dell’acqua corrente, dell’elettricità e dei rifornimenti di cibo. Che la guerra avesse potuto essere condotta in altro modo, si può evincere da questo paragone. La Striscia di Gaza è un territorio grande quanto la provincia di Prato e l’esercito israeliano, che lo conosce alla perfezione, è molto più forte delle milizie di Hamas. L’esercito ucraino è invece più debole di quello russo (tralasciando le armi tecnologicamente all’avanguardia inviategli dall’Occidente), ma è riuscito dal 2022 a riconquistare un’area di territorio più grande di Sicilia e Sardegna messe assieme, riducendo i bombardamenti e le vittime civili veramente al minimo. Nel mondo contemporaneo anche le guerre hanno le loro regole e il governo israeliano sta molto probabilmente compiendo dei crimini di guerra. In questo modo fa crescere a dismisura l’odio dei palestinesi verso Israele e rende la prospettiva dell’indipendenza di una Palestina pacifica sempre più lontana. Finora l’Occidente ha solo timidamente espresso preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani. Se non alzerà la sua voce e non provvederà a fare tutto il possibile per evitare che il massacro si amplifichi, si porterà addosso questa colpa per molto tempo.

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