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Lo Zimbabwe ha scelto, il coccodrillo Mnangagwa nuovo Presidente

I risultati ufficiali alle elezioni dello Zimbabwe. Ha vinto il braccio destro dello storico presidente Mugabe, spodestato proprio dal suo vice grazie anche all'appoggio dell'esercito.

Lo Zimbabwe ha scelto il suo cambiamento. Emmerson Mnangagwa è stato confermato terzo Presidente dello Zimbabwe, un ruolo che aveva ricoperto dallo scorso novembre in forma pro-tempore, dopo esser stato per tre anni il primo vicepresidente del Paese.

Secondo quanto diffuso dalla Commissione elettorale (Zec) alla Camera bassa, il leader patriottico dell'Unione Nazionale Africana di Zimbabwe (Zanu-PF) ha guadagnato 153 dei 210 scranni (110 solo con il suo partito), più della metà, e potrebbe seriamente superare la quota dei 273, visto che alla conta mancherebbero ancora 9 seggi. Il quorum dei 2/3 per il cambiamento della Costituzione è stato ampiamente superato.

Le gioie dell'opposizione sono durate poco: nonostante i facili proclami di una vittoria “clamorosa” per il giovane avvocato e pastore protestante, Nelson Chamisa, leader del principale partito d'opposizione, il “Partito del Cambiamento” (MFC), ha perso e di brutto: i numeri parlano di “appena” 41 parlamentari, che potrebbero però aumentare man mano le schede verranno conteggiate. Entrambi gli schieramenti, comunque, hanno più o meno consolidato i numeri delle precedenti elezioni Presidenziali.

Emmerson Mnangagwa, leader della maggioranza uscente di Zanu-PF, più croce che delizia del Paese, diventa così ufficialmente il nuovo presidente Shona. L'etnia che dal postcolonialismo ad oggi si è issata al comando del Paese, trasformandosi da agente di liberazione a carnefici di minoranze politiche ed etniche.

Quelle appena trascorse per la vita democratica del Paese sarà una svolta: se si considera la validità e la veridicità della competizione elettorale che, nonostante le lamentele per alcune pressioni nelle roccaforti del partito Movement for The Change (MFC), sono filate lisce. Conferme in tal senso arrivano dalla Commissione elettorale, l'organo ufficiale di controllo del processo elettorale.

Fanno eccezione i sanguinosi fatti di Bulawayo, un mese fa, e altre importanti durante la campagna elettorale, altri evidenti violazioni e le insinuazioni di alcuni attivisti, che hanno denunciato la presenza di ultracentenari nei registri. Il colmo per un Paese le cui aspettative di vita non superano in media i cinquantanni. L'opposizione ha etichettato come “fasulli” i risultati elettorali divulgati dallo Zec, accusandolo di voler “invertire la vittoria presidenziale del popolo”. Il pericolo è che la gioia si trasformi in frustrazione e le bizze dei manifestanti contro la polizia degeneri.

Nonostante ciò i rubinetti dei finanziamenti dei creditori internazionali dovrebbero essere riaperti: Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale su tutti. Linfa per la ripresa del Paese, che proprio a causa di un vulnus democratico e umanitario si è visto, in passato, rifiutare i prestiti. Anche in virtù di politiche panarabe e anticolonialiste, che hanno applicato sanzioni e reso più difficile l'arrivo degli investimenti in genere.

Lo Zimbabwe volta pagina e si lascia alle spalle il Presidente Robert Mugabe, che non è più tra i candidati dopo 37 anni (30 come presidente, gli altri come premier) di feroci repressioni, di violazioni dei diritti umani e di un declino economico costante. Mugabe era già stato spodestato con un “golpe dolce” da alcuni esponenti del suo partito, l'ala che si è radunata attorno a Mnangagwa, aiutato dai militari dell'esercito. Il 93enne Mugabe ha abbandonato così l'ambizione di una successione “dinastica” del partito e del Paese, sfuggito dalle mani di sua moglie Grace, first lady che sarebbe voluta diventare prima presidente donna, e da quelle dei seguaci del movimento “Generation 40”, la corrente del partito che ha tra i suoi obiettivi proprio quello di sostituire i vecchi gerarchi all'interno dello Zanu-PF.

Un tradimento dopo l'altro, alla storia del Paese e del partito, che ha visto Mugabe assieme a sua moglie Grace e alla figlia Bona, rispondere al golpe con un sonoro voto di protesta nelle urne dell'Highfield district. Dopo l'intervista choc alla vigilia delle urne i tre hanno scelto Nelson Chamisa, successore Morgan Tsvangirai all'Harvest House, esponente degli odiati Ndebele e il più credibile tra i ben 23 sfidanti (di cui 9 donne) dell'egemonia politico-militare degli Zanu-PF.

Mugabe lascia un paese in profonda crisi. Ad oggi lo Zimbabwe è a metà classifica per ricchezza: è al 26esimo posto sui 54 Paesi africani, è in terza fascia per quanto riguarda la mortalità infantile, tra le più alte, un parametro spesso ritenuto come indicatore della salute di un Paese, ed è tra i primi sei paesi con la maggiore mortalità per Hiv (30mila morti all'anno). Il Paese è zavorrato anche dall'11esimo debito pubblico più alto d'Africa (76 percento del Pil), con il secondo più alto saldo migratorio negativo dopo l'Eritrea, il più alto tasso di disoccupazione del continente nero (le ultime stime parlano del 95 percento della popolazione) e con una moneta (il dollaro dello Zimbabwe) iper-inflazionata, che è stato sostituito dal dollaro americano e dal rand sudafricano tre anni fa, dopo quasi un decennio di crisi.

Un Paese nettamente differente da quello ereditato dopo l'indipendenza dal Regno Unito del 1980, nel trapasso dalla Rhodesia Meridionale, l'allora “Svizzera d'Africa” per ricchezza e comfort, e all'attuale Zimbabwe, il Paese da dove tutti fuggono. Troppi gli errori politici, soprattutto quelli legati alla seconda fase dell'era Mugabe, negli anni 2000, gli anni dalle espropriazioni delle terre dei 4.000 agricoltori bianchi, la “Jambania”, per lo più anziani, sopravvissuti alle violenze degli anni precedenti. Una rivoluzione mancata, in quello che è stato sempre considerato il “granaio d'Africa”, ma che negli effetti ha favorito la fuga dei capitali e ha gettato nel disordine il Paese, inasprendo la convivenza tra le differenti tra le tre etnie che convivono in uno dei più cattolici e pacifici tra i paesi africani.

Durante l'era Mugabe le risorse sono state sperperate: hanno oleato le leve della corruzione e fiaccato le infrastrutture. I 17 miliardi spesi nel settore agricolo hanno restituito un Paese che paradossalmente “annacqua” in una crisi idrica senza precedenti, con la capitale senz'acqua e fognature e con le aree rurali a rischio desertificazione. Grazie ad un governo di unità nazionale il Paese è riuscito a risalire la china dopo la crisi del 2008. Ai tavoli del governo gli Shona e gli Ndebele, lo Zanu-PF di Mugabe e MFC di Tsvangirai e del ministro Chamisa, prima che nel 2013 Mugabe riprendesse da solo il comando del Paese.

La guerra tra i due schieramenti è comunque proseguita sotto traccia, con colpi colpi bassi, con l'esercito, la polizia e i servizi segreti. Una nuova frontiera rispetto al passato, quando gli Ndebele, spesso, sono stati epurati con l'arma biologica dell'Hiv e con attacchi militari, che in alcune circostanze potrebbero esser stati condotti proprio dal nuovo Presidente.

Con le votazioni presidenziali dello scorso lunedì gli zimbabwesi sono stati posti ufficialmente dinanzi ad una scelta, quella di cambiare: bruscamente attraverso la scelta del brioso quanto ribelle Chamisa, 40 anni, già parlamentare a 25 e astro nascente della politica africana. O con l'astuto Mannagagwa, 75 anni, “il coccodrillo”, l'usato garantito dell'establishment, ex militare durante la guerra civile e successore naturale dell'unico partito che ha governato nella storia recente del Paese.

Non è un caso che tra le promesse di Emmerson Mnangagwa ci siano proprio quelle di restituire le terre illegalmente confiscate ai proprietari terrieri bianchi, fuggiti negli altri paesi del Commonwealth. Di continuare a tagliare gli sprechi e di agevolare gli investimenti stranieri in passato puniti con sanzioni, e di sfruttare le risorse minerarie (litio e platino) su cui la Cina, visitata da Mnangagwa poco prima del golpe, sta facendo capolino.

Peccato per il treno super-veloce sognato dal giovane Chamisa, sbeffeggiato per le sue idee, che ha promesso tanta modernità un treno superveloce che colleghi il Paese.

Tra le altre promesse, ovviamente, quella che è non venga mai più ripetuto quanto successo sotto l'egemonia di Mugabe. Sarà questa, numeri e nomi a parte, la vera sfida da fronteggiare.

 

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