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Le parole di Emma, la lapide per il Cavaliere e l’immutata necessità di un nuovo C.L.N.

Le dichiarazioni rilasciate iera dal presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, “l'Italia ha perso dieci anni. Per la crescita serve una politica autorevole”, rappresentano una presa d’atto, per molti versi tardiva, di un fenomeno platealmente evidente: il fallimento del berlusconismo.

Silvio Berlusconi è politicamente morto dal giorno in cui ha presentato il suo governo

Messo a furor di popolo alla guida del paese, sostenuto da una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana, il neo-eletto Presidente del Consiglio comunicava, assieme ai nomi di quelle emerite nullità che, nonostante fosse il primo da decenni ad avere il potere di farlo, non avrebbe cambiato proprio nulla.

Così è stato.

L’Italia di cui ha assunto la guida era reduce da un trentennio di stagnazione (anche la crescita economica degli anni ’80, al netto dell’indebitamento, per tale si rivela) ma aveva anche conservato buona parte delle proprie capacità industriali; era un paese in difficoltà, ma che restava il secondo paese esportare d’Europa e il quinto del mondo.

Partendo da quella base, miracolosamente rimasta quasi intatta, l’Italia appariva, con la Germania, un paese meglio attrezzato rispetto ad altri, più profondamente terziarizzati, per attraversare indenne anche la crisi finanziaria esplosa nell’estate del 2007.

Non ci sarebbe voluto molto a far ripartire la sua economia, esattamente come non molto ci vorrebbe ora, ma Silvio Berlusconi, prigioniero del proprio populismo, non ha avuto il coraggio morale, prima che politico, di prendere quei provvedimenti, ovviamente impopolari soprattutto presso il suo elettorato, necessari ad ottenere questo, del tutto possibile risultato.

Ha preferito, Silvio Berlusconi, negare l’evidenza della crisi (e lo sta ancora facendo) arrivando puerilmente a contestare i dati dell’ISTAT e dell’OCSE, piuttosto che prendere atto di quale fosse la situazione ed intervenire energicamente; ha demandato al proprio ministro delle Finanze, uno tra i pochi del governo ad avere un minimo di competenza, il compito di mantenere in linea di galleggiamento i conti pubblici (e Tremonti, da bravo ragioniere, lo ha fatto senza la minima visione delle priorità) e ha dedicato ogni attenzione, sua e del suo governo, alla risoluzione dei propri problemi personali, giudiziari e no.

Nulla, in particolare, Berlusconi ha fatto per liberalizzare la società, prima ancora che l’economia, del paese; per spezzare la rete d’interessi corporativi che è la causa prima della nostra stagnazione. Presentatosi, all’inizio della sua ormai lunghissima carriera politica, come un elemento di rinnovamento si è comportato, una volta raggiunto un potere quasi assoluto, da perfetto conservatore; da garante degli interessi delle nostre mille oligarchie e dei loro privilegi.

Basta questo a condannarlo nel giudizio di tanti italiani, lasciando da parte lo squallore di certi suoi comportamenti pubblici, la volgarità dei suoi modi, e la sua incapacità, ormai palese, di ricoprire con dignità un ruolo istituzionale.

Le dichiarazioni rilasciate ieri da Emma Marcegaglia: “L'Italia ha perso dieci anni. Per la crescita serve una politica autorevole”, rappresentano solo la presa d’atto ufficiale e per molti versi tardiva, da parte degli industriali, di questa morte politica ormai evidente a tutti e dell’altrettanto palese fallimento del berlusconismo.

Manca solo, sulla tomba politica di Silvio Berlusconi e del suo movimento, la lapide di una sfiducia parlamentare che i risultati dei ballottaggi di domenica potrebbero rendere assai prossima.

Finirà in quel momento l’emergenza democratica rappresentata dagli attacchi del tardo berlusconismo nei confronti delle istituzioni e della Costituzione, ma resterà quasi intatta la necessità di un ampio fronte di forze, di un nuovo CLN, per affrontare la difficilissima situazione economica.

Il prossimo governo, chiunque sia chiamato a presiederlo, dovrà chiedere ai cittadini dei sacrifici straordinari. Dovrà mettere in atto una politica di estremo rigore e trovare, nel contempo, le risorse per salvaguardare i redditi più bassi (la ripresa del mercato interno è condizione necessaria per il rilancio della nostra economia; bisogna assolutamente infilare nelle tasche degli italiani più poveri qualche euro in più). Dovrà tagliare ulteriormente e dolorosamente la spesa pubblica (la Corte dei Conti parla della necessità di una manovra da 40 miliardi almeno nei prossimi anni) e trovare, prima d’ogni altra cosa, di che finanziare l’istruzione e la ricerca. Dovrà cercare di mantenere quel che resta dello stato sociale (dovrebbe addirittura aumentare le prestazioni offerte ai giovani, lasciati a se stessi, e ai pensionati, il 50% dei quali riceve meno di 500 euro il mese) ma anche iniziare una reale e profonda liberalizzazione della nostra economia.

Il prossimo governo, quello che uscirà dalle elezioni politiche che è facile immaginare ormai non lontane, dovrà scontentare moltissimi italiani, pena l’uscita dell’Italia dal novero dei paesi che contano, e, anche così, solo con un miracolo d’equilibrio riuscirà nel proprio compito; non potrà avere nessuna speranza di farcela se sarà sostenuto da una maggioranza parlamentare debole e litigiosa.

Per tutti gli italiani di buona volontà verrà il momento, quando Silvio Berlusconi sarà definitivamente consegnato alla storia, di dimenticare per qualche anno le proprie differenze per lavorare, tutti assieme, alla ricostruzione del Paese.

Lo fecero i nostri padri e nonni; possiamo benissimo farlo anche noi.

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