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’Le madri cattive’ di Nicoletta Vallorani

'Le madri cattive' di Nicoletta Vallorani, Salani, collana Petrolio, è ancora fresco di stampa (uscito nel marzo 2011) eppure già dalle prime pagine l'impressione è che sia destinato a rimanere in raffreddamento oltre i tempi tecnici editoriali.

C'è un'etica fortemente radicata, nella società italiana, un'etica che delle 'madri' restituisce un preciso decalogo di ciò che deve e non deve essere, di ciò che si fa e non si fa, di ciò che si prova e, invece, di ciò che non è ammesso nemmeno nominare. E' complicato, pieno di resistenze, il processo che tenta di scuotere fondamenta, perfino gli scossoni più impercettibili il sistema sociale tenta di assorbirli, negarli, evitarli con l'abilità del falsario consumato. Le madri sono amorevoli, attente, dedite, possono essere rigide e severe ma è tutto funzionale all'amore per i figli. Le madri non rifiutano.

Siamo macchine più elementari della altre, e basta così poco a compromettere il nostro funzionamento. Un bicchiere di vino in più, oppure una carezza che ci viene fatta, comprensione che arriva a sorpresa proprio quando la vorremmo. Basta poco.
Un bicchiere di vino in più.
Una bella passeggiata.
Una persona che mi è piaciuta.
Parole che ho detto, sentendomi quasi in pace.
Un ricordo di troppo.
Non sono sicura di sapere tutto quello che ho raccontato a Paolo.
O forse sì.
Nulla di compromettente.
Ora sono stanca, però.
Guardo le mie foto sul muro.
Le mie figlie cattive.
La mia figlia non nata, affogata nel bianco di un ospedale.
L'aborto.
Basta, ora.
Facciamo silenzio.
(pag.145-146)

Si tratta di un romanzo che da subito impone atmosfere, umori, visioni, ritmi e affondi intensi, ci si entra con facilità, i personaggi sfilano, si lasciano carezzare, radiografare ma gli affondi sono dietro l'angolo, improvvisi e insidiosi.

Non è un libro per evadere, non per quel tipo di evasione leggera, da fuga in altri mondi piacevoli, buoni o destinati a far sognare. Qui ci sono i peggiori incubi di molte donne (e uomini). Ci sono le principali crudeltà, e contraddizioni verso quello che è 'il' ruolo per eccellenza delle donne: l'essere madre.

Non che Vallorani vada a inventare qualcosa di nuovo, nemmeno lo nasconde: il lettore sa esattamente cosa aspettarsi (dalla seconda di copertina, dai primi capitoli...) eppure non lo sa, cosa l'aspetta. Non lo sa perché Vallorani s'insinua in quelle piaghe del corpo che non esistono perché non le si nomina mai. Eppure sono.

Di madri assassine se ne sono occupati in tanti, perfino nell'Italia abbracciata ai suoi tabù salvifici, perfino dopo anni infuocati per la cronaca nera al femminile. Perfino dopo le quantità industriali di parole, retoriche e morali stantie e rindondanti su casi nazionali recenti ancora in bilico (Annamaria Franzoni non la si può definire con certezza giuridica 'assassina' ma 'madre' sì). Nonostante gli approfondimenti a tema più concentrati sulla 'donna' in quanto genere prioritario piuttosto che sul singolo ruolo, quello di 'madre' nella fattispecie, che riduce il raggio d'azione e amplifica significati, conseguenze, empatie.

Mi è tornato in mente un altro libro: 'Madri assassine. Diario da castiglione delle Stiviere' di Adriana Pannitteri, Gaffi, 2006 (su Ibs e su anobii). Un saggio con tutt'altre finalità rispetto al romanzo di Vallorani, eppure un libro dove tra testimonianze e voci, raspano le stesse inquietudini, le stesse domande aggravate dalla percezione d'un cordone ombelicale come oggetto reale e simbolico potentissimo, che tutto può e tutto decide salvo la morte (o almeno è quello si ci si tramanda da secoli).

Vallorani non la manda a dire. Infila periodare brevi, fulminanti, che aprono varchi.

Le foto vivono non solo nella luce in cui sono state scattate, ma anche di quella che le illumina ogni volta che le guardi. Una luce che muore: nulla di più adatto per scegliere la foto per la tomba di mia madre.
(pag.12)

Tutto è scomparso, a parte il disordine. Non c'è il corpo, non c'è l'assassina, qualcuno è sparito, senza lasciar traccia di sé oltre al caos.
Io sono uno sguardo. Tutto quel che vedo diventa memoria. Basta uno scatto, e questa è la scena.
(pag.19)

Ma 'le madri cattive' è anche un noir e come tale mescola e cuoce a fuoco lento ogni ingrediente sapientemente dosato. La sottile tensione si mantiene per tutta la narrazione. L'impressione è quella di camminare perennemente in punta di piedi. Ed è un'impressione palpabile quanto delicata, in alcuni momenti pare scemare poi torna, i nodi irrisolti si fanno via via più pulsanti, premono, pretendono lo svelamento.

Annie la fotografa e Ariel la psichiatra si ritrovano sulla scena d'un crimine simbolicamente rivelatore: una madre ha ucciso il proprio figlio. Da questa scena le due donne iniziano un viaggio, che è un ritrovarsi ma anche un perdersi tra le storie, le voci di molte altre madri assassine, tra passato e presente, in mezzo a un'indagine in piena regola quanto un vivere diverso eppure sottilmente accomunato da inquitudini, fatiche, irrisoluzioni individuali.

Questo vuoto abitato mi conforta. Le foto mi guardano dal muro. Vorrei avere figli per porterli consegnare al tempo in questa forma. Vorrei avere affetti, ma non ne ho. Mi restano le mie assassine, le figlie indegne, le madri cattive...
Non siamo diverse da loro, noi donne per bene.
Solo, mentiamo di più, e meglio.
(pag.47)

La lingua della Vallorani va saggiata con cautela e abbandono. E' una lingua matura, consapevole ma non di maniera. E' una lingua dosata e sbavata, laddove le imperfezioni sono tra sospensioni, incastri di piani e atmosfere, deviazioni nelle percezioni e nel narrare.

_______

[...]... padri sarebbero arrivati a reclamare i loro figli ormai grandi, per venderli o mangiarli. O per farli schiavi, amanti, vittime, prede...
Nulla di buono.
Nulla di buon ne poteva venire.
Così noi streghe abbiamo deciso. Abbiamo fato quello che era necessario.
La nostra vita è avvolta in una garza nera. Camminiamo nella via centrale del villaggi. La gente ci guarda nascosta dietro le tende delle finestre. Nessuno ci accosta. Nessuno apre la porta.
Camminiamo.
Le garze nere sventolano.
Siamo le madri.
Le streghe.

Non c'è firma. Non ci sono commenti. Non c'è data. Cos'è?
Rovisto ancora nella cartella solo per estrarne un altro foglio giallognolo, con su scritto un altro testo:

Siamo seguite da fantasmi. Spettri di figli cresciuti, una truppa slabbrata di Hansel e Gretel che la strega ha mangiato, e mangiandoli li ha resi liberi. [...]
Ma non serve farsi domande. Abbiamo imparato a sopportare il gelo e gli sguardi. Fissiamo i nostri piedi che affondano nella neve. Camminiamo dentro i passi di chi sta davanti a noi. Cerchiamo di non pensare al passato.
Cerchiamo di dimenticare i nostri figli.
Di continuare a pensare che abbiamo fatto bene.
Cerchiamo di vivere.
Perché la morte non ci ha volute.

(pag.135-136-137)
_______

Non si fatica a entrare in questo 'mondo', il problema è evidentemente il suo opposto: uscire da questa voce che narra, lasciare sviluppi e nuove inquadrature, dimenticare pensieri, ragionamenti, volti e immagini. Abbandonare (di nuovo) la fotografia del corpo d'un bambino morto, sapendo che quel bambino è tuo figlio: è questa la controindicazione terapeutica del romanzo.

L'associazione tra Fotografia e Analisi delle menti amplifica esponenzialmente la forza d'un raccontare che s'artiglia all'empatia del lettore con tenacia e crudeltà. In particolare, mentre il personaggio di Ariel ha un ruolo più prevedibile, almeno per quanto può esserlo nell'immaginario collettivo la figura di uno psichiatra che ha a che fare con madri assassine; Annie, invece, s'assume da subito il compito ardito di narrare, di essere 'la' voce della storia, ma anche quello apparentemente indiretto di fissare per immagini stralci della stessa.

La fotografia, come forma d'arte quanto come strumento 'scaccia amnesie' ormai alla portata di tutti, è un elemento curioso e allo stesso tempo potente, a mio avviso anche nell'impiego narrativo, potente molto più di quanto fin ora sia effettivamente emerso dalla letteratura contemporanea. D'altronte la fotografia è la più recente forma tra le arti, partorita per la storiografia ufficiale attorno al 1839, diffusasi lentamente fino a fine secolo tra note produzioni ritenute artisticamente elevate come i ritratti di Nadar e altre evoluzioni nonché differenti utilizzi come per le c.d. carte-de-visite brevettate dal fotografo francese Disdéri. L'identità artistica fotografica inizia a pulsare con le Avanguardie del nocento e arriva fino a noi oggi attraverso oggetto sottili e leggeri, tecnologie digitali a prova d'imbranato nonché prezzi competitivi.

Ciò nonostante l'essenza della fotografia, questa sua capacità tutt'ora misteriosa e sospesa, di catturare l' "è stato" come scrisse Roland Barthes nel noto saggio 'La camera chiara' (scritto nel 1979, edizione italiana Piccola Biblioteca Einaudi), questo 'talento' lo si potrebbe definire poeticamente, ha potenzialità narrative che Vallorani approfondisce lasciando spesso alle immagini scattate, al momento dello scatto, un ruolo fondamentale al punto da mischiarsi con l'impasto del romanzo.

«Non l’hai mai fotografata» dice la voce alle mie spalle.
«Da quando sei andata via di qui, non l’hai mai, mai più fotografata».
So due cose: è vero (che non l’ho mai fotografata da allora) e non esiste (la voce alle mie spalle). Il confine si è fatto poroso. Arrivano i fantasmi.
«Me ne andrò presto, papà» sussurro senza voltarmi. «Non preoccuparti».
«Te ne sei già andata una volta. Quante volte pensi di abbandonarci, bambina?»
«Infatti. Tu non ci sei. Non posso abbandonarti».
Guardo fuori, sulla terrazza, il ciclamino che è spuntato da solo tra le pietre del muro. È una stagione impossibile in un posto impossibile.
È il tempo dei sogni. Devo viverlo tutto, senza sconti.
(pag.82)
 

E' falso che non si possa fotografare ciò che non c'è. Si può, e come. Sono le foto migliori.
(pag.216)

Vallorani non rinuncia ai suoi amori-odi e alle sue ossioni come Milano, i rapporti complessi tra donne, le fondamenta costruite dal passato indigesto, il ritmo veloce ma duro, i dettagli sensoriali. Questo libro è però - a mio avviso - il lancio verso un luogo intimamente collettivo tra i più rifiutati, cancellati e ignorati in questa nostra società contemporanea (soprattutto in Italia). Il luogo dove il sangue porta ad altro sangue senza che nulla di ciò che è stato insegnato, nulla di ciò che si può studiare, analizzare e indagare è comprensibile. Il luogo dove non vorresti mai essere.

 

Link

Scheda del libro dal sito dell'editore.

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